L’antisemitismo storico-universale di Heidegger, nei suoi Schwarze Heft (“Quaderni neri”)
Roberto FAI
«[…] Allora mi viene spesso voglia di porre loro una semplice domanda: ma avete mai letto Essere e tempo»1? In questi termini, rivolgendosi – per parafrasare Heidegger – “innanzitutto e per lo più” a tutti, Jacques Derrida, nel 1988, prendeva le distanze dal provocatorio e discusso saggio di Victor Farías2 – Heidegger e il nazismo –, uscito nella lingua originale l’anno precedente, e che aveva suscitato ampio scalpore con la tesi secondo cui l’adesione di Heidegger al regime hitleriano, resa ufficiale, nel 1933, con l’assunzione (e il suo famoso discorso) del Rettorato all’Università di Friburgo, più che da ascrivere a un iniziale errore di valutazione, o a mero peccato di “ingenuità politica” – così si sarebbe espressa qualche decennio dopo Hannah Arendt (sua allieva e, nella prima metà degli anni ’20, sua amante) –, oltre ad averne connotato integralmente il suo “vissuto storico”, ne aveva informato la sua stessa filosofia: in altri termini, essendo Heidegger intrinsecamente nazista, anche il suo stesso pensiero filosofico ne era intrinsecamente coinvolto, e conseguentemente era tutta la sua opera a meritare la definitiva messa al bando.
Netti e trancianti erano seguiti i giudizi di molti studiosi verso il lavoro di Farías. Nell’ambiente filosofico francese, molto dura era stata la replica di François Fédier3 nei confronti del saggio dello studioso spagnolo, così come lo stesso Hans-Georg Gadamer, che di Heidegger era stato allievo e interprete tra i più importanti e originali, sempre a proposito del saggio di Farías, aveva parlato di «superficialità e ignoranza»4. Analoga operazione di demolizione di Heidegger, in quanto “filosofo”, veniva successivamente intrapresa nel 2005 da Emmanuel Faye5, il cui intento inquisitorio era quello di realizzare una sorta di proscrizione perpetua della sua opera filosofica, chiedendo l’eliminazione dei suoi libri dalle “Biblioteche”: quasi una sorta di secolarizzazione debole del già visto “rogo dei libri”. Al contempo, la convinzione di un Heidegger “non antisemita” è perdurata per lungo tempo – pur nel comune riconoscimento della sua colpa derivante dalla sua pur breve parentesi di “compromissione” con il regime nazista –, dal momento che questa è stata anche l’opinione di molti dei suoi illustri allievi, alcuni dei quali, peraltro, ebrei – dalla già citata Arendt, a Karl Löwith a Herbert Marcuse, allo stesso Hans Jonas –, ed anche di autorevoli studiosi, tra i quali quel Rüdiger Safranski che, nel 1994, su Heidegger, ci ha lasciato una straordinaria ‘biografia filosofica’: Heidegger e il suo tempo, che è venuta ad aggiungersi a quella del 1988 di Hugo Ott, Martin Heidegger. Sentieri biografici6.
Come noto, verso la fine del 1944, nella sua Friburgo distrutta dai bombardamenti anglo-americani e occupata dai militari francesi, il nome di Heidegger verrà registrato nella “lista nera” dei collaboratori del regime, determinando la requisizione della casa, della biblioteca e, da lì a poco, anche la sospensione del suo incarico universitario, un cumulo di provvedimenti che causarono il suo crollo psicologico. Solo sul finire del 1951, Heidegger sarà reintegrato nell’Università, pur senza la concessione della cattedra. Ma il suo nome e la sua fama, già dai primi anni trenta, specialmente in Francia, erano a tal punto circondati da un alone di forte interesse che già sul finire del 1945 si era prospettato un possibile incontro con Jean Paul Sartre, facilitato da quel Fédéric de Towarnicki, giovane soldato, incaricato per la cultura dell’esercito francese, di stanza nella Germania occupata che, insieme al futuro cineasta Alain Resnais, aveva avuto modo di incontrare Heidegger nella sua baita della Foresta nera. De Towarnicki, che aveva già letto Che cos’è metafisica, costituì il tramite principale tra Heidegger e il mondo filosofico francese e riuscì a colloquiare con il filosofo tedesco in più occasioni, conservando gelosamente i preziosi dattiloscritti annotati a mano dall’autore di Essere e tempo. Di questa sua esperienza con Heidegger, De Towarnicki ci ha lasciato un bel diario, Ricordi di un messaggero della Foresta nera. Incontro ad Heidegger.7
Sta di fatto che, pur se il previsto incontro con Sartre non poté aver luogo, l’interesse sul legame tra Heidegger e il regime hitleriano o il plesso “Heidegger/nazismo” – un legame, in quei primi anni postbellici, immaginati come carichi di colpa “personale”, ascrivibile sia alle intime ambiguità della persona, o alla miseria del filosofo, senza che ne fossero coinvolti i tratti del suo pensiero e la sua stessa produzione filosofica – verrà confinato a un momento specifico e molto delimitato della vita del filosofo di Messkirch, spingendo la comunità filosofica europea, sin dall’immediato dopoguerra a concentrarsi (e privilegiare) prevalentemente nell’opera d’interpretazione, comprensione e traduzione della vastissima e straordinaria produzione filosofica di colui che, senza ombra di dubbio, verrà considerato il maggiore filosofo del ‘900. A tal proposito, vale citare il giudizio dell’ebreo-lituano Emmanuel Lévinas, già autore nel 1934 di pagine intense e straordinarie – Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo8 –, il quale, pur non nascondendo la sua delusione per il “silenzio” mantenuto da Heidegger nei confronti della Shoah, così, ancora nel 1986, si esprimerà, commentando la sua opera più importante (Essere e tempo): «è uno dei più bei libri della storia della filosofia – lo dico dopo alcuni anni di riflessione»9.
Tuttavia Heidegger non riuscirà a stemperare del tutto questa macchia inquietante che è gravata per lunghi decenni del dopoguerra sulla sua figura. Peraltro, egli stesso, ancora sul finire degli anni ’50 – in un momento storico in cui l’opera di comprensione delle ragioni del “come e perché” quel laboratorio dell’annientamento umano, che era stato il nazismo, era potuto accadere –, non si è sottratto al rischio di turbare ulteriormente la vicenda di questa sua discussa relazione con il regime hitleriano. Infatti, se il tema ineludibile, cui la filosofia non poteva sottrarsi, era quello della responsabilità del pensiero rispetto alla Shoah, con quali parole dire e giudicare l’abisso dell’indicibile che era rappresentato dall’Olocausto? Ecco perché, oltre al suo “discusso silenzio”, saranno alcune inquietanti e stupefacenti analogie, da egli stesso avanzate, che, paradossalmente, aggiungeranno qualcosa di decisamente provocatorio nella percezione, nella comprensione del suo giudizio sull’Olocausto. Non poteva, infatti, non avere qualcosa di perturbante e stupefacente la frase pronunciata da Heidegger nel 1949, in occasione di una delle sue quattro Conferenze di Brema sulla tecnica – frase, dapprima eliminata dallo stesso Heidegger, e poi reinserita quando circoleranno i dattiloscritti –, in cui egli stesso si era espresso in questi termini: «L’agricoltura è adesso un’industria altamente motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi e della riduzione di paesi alla fame, la stessa cosa della fabbricazione di bombe all’idrogeno»10 (corsivo nostro).
Questo passo non era solo “scandalosamente insufficiente” – così si esprimerà, qualche decennio dopo, Lacoue-Labarthe nel suo saggio su Heidegger del 1987, La finzione del politico11 –, bensì oltremodo ambiguo, perché metteva in luce l’ingiustificabile tentativo di Heidegger di neutralizzare, dietro l’uniformità del ruolo totalizzante e pervasivo del dominio della tecnica, il tratto totalmente mortifero, tanatopolitico di un nazismo12, assolutamente imparagonabile a ogni generico processo di tecnicizzazione del mondo. E’ pur vero che, nei primi anni del dopoguerra, l’avvitarsi del clima di “guerra fredda” lasciava presagire una crescente esasperazione delle relazioni tra i due blocchi sino a enfatizzare il timore e i rischi di una guerra nucleare, rendendo pertanto plausibile un’interpretazione sul ruolo incontrollabile della tecnica, sottratta così a ogni volontà o “limite” soggettivo: la dimensione sradicante afferiva e afferisce alla tecnica in quanto tale e alla sua inarrestabile forza provocante, come in quel «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra», con cui Heidegger rispose ai suoi intervistatori di “Der Spiegel” nel 197613. Tema, come noto – quello della “tecnica” – che ha peraltro rappresentato un topos della filosofia del ‘900, e sul quale, non è un caso sia stato proprio Heidegger il pensatore che abbia lasciato analisi e saggi di profondo spessore, pur nel carattere controverso del suo stesso lascito teorico.
Certamente, pur nel riconoscimento della sua straordinaria statura di pensiero, domande radicali, ricerche filosofiche, giudizi severi, attese chiarificatrici sul tema “Heidegger e il nazismo” non sono mai mancati. Neppure nell’occasione dell’incontro di Heidegger con Paul Celan – forse la più significativa e intensa al riguardo –, che ebbe luogo tra i due il 25 luglio del 1967, il tema e le domande sul coinvolgimento e sull’adesione del filosofo al nazismo riuscirono a determinare una svolta, un chiarimento, mentre «la speranza di una parola che viene nel cuore» era proprio ciò che Celan si augurava, per porre fine alla sua estrema inquietudine. Il poeta Paul Celan, scampato per un caso ai campi di sterminio, aveva letto e annotato moltissimi lavori di Heidegger, e verso quest’ultimo «si sentiva attratto, e al tempo stesso se lo rimproverava» – secondo la ricostruzione lasciataci da Safranski. Il giorno successivo alla Conferenza che egli tenne nell’Aula magna dell’Università di Friburgo, davanti a circa mille persone (con Heidegger seduto in prima fila ad ascoltarlo), Celan ebbe modo di incontrare da solo Heidegger – superando qualche iniziale tentennamento –, incamminandosi con lui lungo il sentiero della Foresta Nera, per giungere poi nella baita di Todtnauberg. L’esito di quell’incontro – e di altri successivi colloqui tra i due – è circondato da un alone di mistero, e sono molte le supposizioni che ne sono seguite14.
E se le ricostruzioni di quei momenti da parte dei biografi riferiscono sullo «stato d’animo di ritrovata serenità» tra i due, né l’ammissione pubblica di una colpa, né il chiarimento su quell’imperdonabile silenzio, né il giudizio postumo sull’esperienza di quell’abisso dell’anima e dell’umano che era stata la Shoah, venne fuori in chiara trasparenza da quell’intimo e personale incontro tra i due: quella che, secondo l’auspicio invocato nell’agosto del ’47 da Herbert Marcuse, potesse tradursi in una sorta di «dichiarazione pubblica del suo cambiamento e della sua trasformazione». O meglio: mentre Heidegger è rimasto a lungo reticente, chiuso nel suo silenzio, in assenza di linguaggio, sarà Celan ad attendere, ad aspettare (o, forse, a custodire nel suo silenzio), nella speranza di «una parola che viene senza indugi» – come avrà modo di scrivere il poeta nella raccolta di poesie del ’70, Luce coatta15. Una parola che tuttavia mai è affiorata in superficie. Di qui dunque, la costante e profonda inquietudine di quanti non hanno mai smesso di interrogarsi su quell’incomprensibile e inaccettabile “interdetto” heideggeriano. Come non ricordare, qui, anche quelli che, come Derrida, Lyotard, Lacoue-Labarthe, Otto Pöggeler, Jean-Luc Nancy, Georg Steiner, Ernst Tugendhat, Carlo Sini, Vincenzo Vitiello, Franco Volpi, Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Massimo Cacciari e altri, non hanno mai smesso di continuare a scavare dentro l’immenso laboratorio heideggeriano, non solo con l’intenzione di cogliere le ragioni (filosofiche) nascoste di quell’ostinato e imperdonabile “silenzio”, ma per fare i conti con la complessità delle sue riflessioni filosofiche, riconoscendone il valore dirompente, o pur prendendo a volte distanza da alcuni sui aspetti concettuali irrisolti. Né possono essere qui negati i giudizi fortemente critici che su Heidegger – il cui linguaggio era segnato da quel retorico gergo dell’autenticità, per dirla con Adorno16 – sono stati espressi da altri filosofi e storici, quali Theodor W. Adorno, Ernst Nolte, Richard Rorty, Jürgen Habermas, per i quali, oltre alla colpa inemendabile della sua “compromissione” con il regime hitleriano, era da mettere nel dovuto conto anche un giudizio severo su alcuni aspetti del suo pensiero filosofico.
Sta di fatto che il problema del rapporto controverso e ambiguo tra Heidegger e il nazismo, è tornato prepotentemente al centro dell’attenzione sul finire dello scorso 2014, inquietando e turbando in modo dirompente e perturbante il mondo filosofico mondiale, alla luce della pubblicazione dei suoi cosiddetti “Quaderni neri”: appunti personali di Heidegger, resi pubblici nello stesso periodo. Al momento, si tratta di circa 1.200 pagine, contenenti riflessioni di Heidegger che giungono sino al 1941. Complessivamente, i “Quaderni” in questione comprendono riflessioni, appunti e giudizi espressi in un arco di anni che va dal 1930 al 1970. In Italia, sono stati già pubblicati i primi due corposi volumi da Bompiani. Dobbiamo essere grati a Donatella Di Cesare, filosofa dell’Università “La Sapienza”, già allieva di Hans-Georg Gadamer e vice Presidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, se già adesso siamo in grado di penetrare, pur parzialmente e indirettamente, dentro queste pagine inedite e nascoste di Heidegger: un intricato e sorprendente laboratorio filosofico, che assomiglia «al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo» (così, la Di Cesare), e che lo stesso Heidegger aveva richiesto venisse edito solo al termine della sistemazione/pubblicazione delle sue opere complete. Il saggio, denso e importante, della Di Cesare, ha per titolo “Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri»”, edito da Bollati Boringhieri a fine 2014, cui ha fatto seguito, nel 2015, un’altra prova saggistica: Heidegger & sons. Eredità e futuro di un filosofo, sempre con Bollati Boringhieri17. L’attenzione che il suo lavoro ha sollecitato è attestata dalla repentina pubblicazione di una nuova edizione del suo saggio, sempre con Bollati.
Il lavoro della studiosa si segnala innanzitutto per il carattere sistematico e organico della ricostruzione dell’intera vicenda, inscrivendo innanzitutto l’origine dello stesso antisemitismo di Heidegger all’interno del contesto culturale, religioso e filosofico della Germania degli ultimi secoli: dentro lo sfondo religioso, filosofico, teologico-politico, in cui Martin Lutero, elevando la sua protesta contro Roma, la Chiesa e il Papato, verrà inaugurando il profilo della nuova identità tedesca, sino ad invocare «la distruzione degli ebrei». Forse qualcuno potrebbe sorprendersi, ma con Lutero la filosofia sistema la “questione ebraica”. Grazie a Lutero, in termini inediti, non solo «riemergeva così l’antitesi tra carne e spirito che aveva improntato la polarizzazione tra ebrei e cristiani» (Di Cesare, p. 30), ma proprio in ragione di ciò, il cuore della Riforma protestante, conferendo alla sfera interiore (lo “spirito”) il suo primato, non farà altro che assumere gli ebrei e l’ebraismo a bersaglio di un violento disprezzo. L’originaria accusa agli ebrei della colpa inemendabile per il crimine del “deicidio” di Gesù, si univa adesso alla lotta teologica di Lutero contro l’intero corredo di quella esteriorità – riti, cerimonie, legalismo, carnalità – che aveva il suo fulcro proprio nell’ebraismo. In tal senso, quella che era stata la plurisecolare “particolarità ebraica” – l’erranza infinita, l’eccezionalità, l’estraneità, l’eterno esodo – veniva colpevolizzata e rovesciata come un guanto, per essere assunta a bersaglio di una feroce critica senza quartiere e di estrema violenza contro gli ebrei, considerati un popolo senz’anima, perfidi, abietti, blasfemi, dannati e portatori di “menzogna”: «è nella critica alla “particolarità” ebraica che si compie, quasi inosservato, il passaggio dall’antigiudaismo, di ordine più prettamente ideologico, all’antisemitismo. Lutero apre un baratro tra jehudim e gojim, tra ebrei e gentili, che non sarà più colmato nella tradizione tedesca. L’impossibilità di convertire il popolo ebraico si coniuga con un pessimismo radicale che nel governo del mondo lascia spazio alla violenza del potere» (Di Cesare, p. 33).
Naturalmente, come noto, giudeofobia, antisemitismo e odio per gli ebrei hanno attraversato non solo il pensiero teologico-filosofico tedesco, bensì scandito, dopo Lutero, segmenti significativi della grande filosofia europea. Sia in Voltaire che in Kant, sia in Schopenhauer che in Nietzsche, poi anche con Fichte e Hegel – precursori dello “spirito” tedesco –, non solo “l’accusa della menzogna”, bensì la stessa immagine degli ebrei come di coloro che non erano degni di poter condividere l’aspirazione alla “universalità” illuministica era servita a costruire l’immagine del popolo di Abramo come inassimilabile ed “esterno” al corpo politico dello Stato. Sicché, la stessa presenza fisica degli ebrei – visti come inafferrabili, sfuggenti, erratici, particolaristici – verrà configurandosi progressivamente sotto la luce cupa del ruolo via via sempre più ingombrante, al punto che nel clima teso e inquieto della profonda crisi dei primi decenni del ‘900, il passo per giungere dall’antisemitismo filosofico alla “soluzione finale” di Hitler sarebbe stato molto breve. D’altra parte, la Judenfrage (la “questione ebraica”), come aveva opportunamente scritto Hannah Arendt, proprio in pieno clima illuministico aveva trovato il suo fondamento (inquietante): «la moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico che l’ha posta»18. Peraltro, nel clima di profondo scoramento collettivo che aveva avvitato la Germania, uscita sconfitta e umiliata a seguito del primo conflitto mondiale, «la grande rinascita della cultura ebraica nel periodo di Weimar, fino alla crisi del 1929-1930 […] infiammò la polemica antisemita» (Di Cesare, p. 113), al punto che di fronte all’affermarsi dello “spirito ebraico” – proprio nel vivo di una profonda “crisi d’identità” e di totale turbamento dei tedeschi – e dell’influsso degli ebrei nel cinema, nelle arti, nella letteratura, nell’editoria, nell’economia in genere, crebbe, specularmente, una profonda insofferenza negli ambienti tedeschi della borghesia conservatrice, del mondo accademico e dell’opinione pubblica delle province, alimentando sino all’estremo le posizioni antisemite più radicali, consentendo poi la presa del potere da parte di Hitler.
Le pagine della Di Cesare su questi aspetti – l’intero capitolo, La filosofia e l’odio per gli ebrei, pp. 29-82 – sono davvero illuminanti e penetranti, e a esse vale la pena di rimandare i lettori, ed è proprio lasciandosi alle spalle questo denso capitolo, che fa da sfondo storico-culturale e filosofico-teologico alle stesse pagine antiebraiche di Heidegger, che l’autrice può inscrivere la stessa riflessione filosofica del filosofo, o meglio: assumendo la questione ebraica in Heidegger, come “questione metafisica”, così come egli stesso ne aveva indicato i termini nei “Quaderni neri”. Questione metafisica, nel senso che l’antisemitismo di Heidegger, pur essendo ben distante dal razzismo di matrice biologica che andrà connotando la cultura e la politica del nazismo – il che non assolve Heidegger per le sue posizioni filosofiche, dal momento che le pagine dei suoi “Quaderni neri” sono cariche di un diffuso humus antiebraico – nasce proprio dall’iscrizione dell’ebraismo nella metafisica occidentale. In altri termini, nel momento in cui, con la modernità, era giunto a compimento il progetto nichilistico della metafisica, vale a dire la dimenticanza dell’Essere a favore dell’ente, l’abbandono dell’Essere e la completa entificazione dell’Essere, Heidegger assegna e imputa proprio all’ebraismo e agli ebrei questo oblio, questa piena entificazione dell’Essere, questo totale dominio dell’ente. Al punto che quello che, per Heidegger, costituisce l’obiettivo primario – il recupero, la “salvaguardia” di quella differenza ontologica (tra Essere ed ente), in grado di porre un freno a quel deserto che cresce di un nichilismo illimitato –, trova il suo ostacolo maggiore proprio nella figura dell’ebreo. In questi termini, la Di Cesare ricostruisce questa dinamica:
«Nei Quaderni neri, mentre resta l’ammonimento all’oblio dell’essere, la differenza ontologica si esaspera, diventa una dicotomia estrema, una divaricazione fatale, un contrasto insanabile. La guerra mondiale viene letta attraverso lo schema della differenza ontologica e si rivela, perciò, la guerra dell’Essere contro l’ente. Lo scontro planetario, che si disegna sull’abisso, ha un valore al contempo ontologico, teologico e politico. Se il destino dell’Essere è affidato ai tedeschi, l’avanguardia dei popoli europei, il predominio dell’ente è imputato agli ebrei. Non solo l’Ebreo, identificato con l’ente, è irrimediabilmente separato dall’Essere, ma è anche accusato di questa separazione […], scisso dall’Essere, l’Ebreo si avvicina pericolosamente al nulla, a cui già Hegel lo aveva condannato. Per Heidegger sussiste un nesso di complicità tra metafisica e ebraismo […]. Sta qui uno dei nodi principali della visione che Heidegger delinea. Esito ultimo e aberrante della modernità, il potere ebraico è il predominio dell’ente. La condanna non potrebbe essere più schiacciante. Il baratro che si spalanca impone di identificare nell’Ebreo il nemico metafisico. Heidegger ripete il gesto di esclusione in modo tanto più radicale, in quanto lo compie sul limite dell’abisso, nel tempo dell’indigenza, nella notte del mondo» (ivi, pp. 98-100).
Già! Quella notte del mondo, in cui Heidegger andrà contemplando, apocalitticamente, una Germania, cuore dell’Europa e diretta erede – come “l’Altro inizio” – di quella Grecia costituente il “primo inizio” del pensiero, ma tuttavia stretta «nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro». Proprio in quel decennio che va dalla prima metà degli anni ’30 sino alla metà del decennio successivo – inaugurato dalla presa d’atto del suo fallimento politico con il “ritiro” dal Rettorato19 –, Heidegger non farà altro che condensare così le sue inquiete e sinistre profezie, avviandosi verso alcuni dei suoi vettori di pensiero davvero decisivi: dalla riscoperta e valorizzazione della poetica di Hölderlin alla cosiddetta “svolta” (la Khere), dal tema dell’Ereignis (“l’evento”) – elaborando i famosi Contributi alla filosofia (Dall’evento)20 –, sino alla centralità della questione della tecnica e del Gestell (“impianto”), mentre andrà intensificando (coi Quaderni) il cuore di quel suo “antisemitismo metafisico” che, purtroppo, con Hitler e il regime nazista troverà pieno e totale dispiegamento concreto nei campi di sterminio. In altri termini, lo sguardo di Heidegger appare raggelato in questa costellazione concettuale e materiale totalmente nichilistica – nella quale l’Ebreo è il principale artefice e l’esclusivo esponente –, segnata da un processo di radicale sradicamento che trova le sue forme e i suoi vettori nel capitalismo, nel dominio tecnico, nel bolscevismo, nel denaro, in quella Machenschaft, che è, sì, “macchinazione”, calcolo inarrestabile, ma anche intrigo, complotto: quell’affaccendarsi subdolo in cui «il potere ebraico […], privo di radici e di suolo, privo di profondità e di storia, corre sulla superficie del globo, lo irretisce tramando e intrigando, tessendo quei rapporti basati solo sul tornaconto, favorisce lo smisurato e la massificazione, asseconda il mescolamento, traffica, commercia, negozia, si affaccenda […], usura l’ente. Riduce tutto a calcolo, asservisce, rende “spettrale” la realtà, la svuota e la priva di senso, fa dello spirito un fantasma, depotenzia l’essere» (Di Cesare, p. 125). Il lavoro della Di Cesare non tralascia, né trascura nulla dei temi, delle questioni, degli argomenti, delle categorie concettuali che compongono il vasto arcipelago filosofico heideggeriano, così come sa mettere a fuoco e rilevare in pagine intense quelle differenze e analogie che, sulla “questione ebraica”, hanno visto confrontarsi, in quegli stessi anni, in quella medesima temperie, altre due personalità di spicco della cultura e della filosofia tedesca: Carl Schmitt e Ernst Jünger. Così come sa prendere di petto l’intero paesaggio critico che, in questo secondo Novecento, ha provato ad avvicinarsi alle aporie e contraddizioni heideggeriane: da Jacob Taubes a Lévinas, da Derrida a Marlene Zarader a Hans Jonas. E a queste altre intense pagine del suo bel saggio rinviamo i lettori.
Aporie e contraddizioni, abbiamo detto: infatti, è come se il paradosso dentro cui il pensiero filosofico di Heidegger sembra incardinarsi, avvitarsi, inflettersi, in questa sua inquieta e angosciata e angosciante “iscrizione” dell’essenza dell’Ebreo – le cui ragioni, probabilmente, possono essere rintracciate nell’ambito di quelle Stimmungen (tonalità emotive) che afferiscono al Dasein: del quale, peraltro, davvero in modo straordinario, egli stesso aveva saputo tessere la fenomenologia della sua vita fattizia, già a partire dai corsi, seminari e scritti dei primi anni ’20, e che confluiranno risistematizzati nelle pagine di Essere e tempo del ’27: da qui, il doppio paradosso sopra accennato! –, risiedesse nel fatto che, pur partito egli stesso dalla critica radicale di ogni essenzialismo, di ogni metafisica dell’identità, di fronte alla domanda originaria su cui arrovella da sempre la filosofia – il “che cosa?”, il “che cosa è?”: il ti ésti del Teeteto –, è come se Heidegger ricadesse nuovamente in quell’essenzialismo metafisico da cui provava a sfuggire, riproducendo una sorta di Ebreo metafisico, costruendo «una figura astratta a cui vengono astrusamente conferite le qualità che dovrebbero appartenere all’“idea” dell’ebreo, al modello, all’Ebreo ideale, nella cui fantasmatica sostanza vengono convogliate le rappresentazioni passate e proiettati gli spettrali incubi del presente e le recondite visioni del futuro […]. La metafisica dell’Ebreo produce un Ebreo metafisico, l’idea dell’Ebreo metafisicamente definita sulla base delle secolari opposizione che mettono fuori l’ebreo, lo respingono nell’apparenza inautentica, lo relegano nell’astrazione senz’anima, nell’invisibilità spettrale, via via fino al nulla» (Di Cesare, p. 210).
Soglia
In fondo, se ci fosse concessa un’immagine che potrebbe “turbare” Heidegger, potremmo ricordargli che quando ha incontrato e s’è innamorato di Hannah Arendt, egli non ha incontrato e avuto di fronte un’astrazione, un’essenza, l’idea dell’Ebreo, bensì la presenza di un’ebrea in carne e ossa! Come se Heidegger, nella sua vita fattizia, non fosse stato all’altezza della “decisione”, non avesse saputo corrispondere a quel carattere faticoso, tragico, fuggevole, abissale cui è esposta ogni apertura iniziante, così come egli stesso aveva saputo descriverne la fenomenologia. E come se, in Heidegger, «l’esserci che si oltrepassa non va verso l’altro, ma torna a se stesso […] Non che manchi l’altro in Heidegger. Ma la finitezza dell’esserci è de-finita dall’altro nel senso che è confinata. Non è l’altro a far sconfinare» (Di Cesare, p. 273). E se fosse, a posteriori, proprio la Arendt a poterci illuminare nello sforzo di poter comprendere il plesso “Heidegger/antisemitismo”, grazie a quello straordinario affresco aneddotico che ella scrisse nel 1953 – “La volpe Heidegger” –, in cui seppe cogliere il fondo oscuro dell’esserci più autentico di Heidegger, scolpendone plasticamente la sua chiusura nell’interiorità? Quella stessa interiorità che, per analogia ma per altre vie, aveva informato l’antisemitismo di Lutero? Riportiamo qui un’ampia sintesi del ritratto straordinario di Heidegger, a firma della Arendt21.
«La gente dice che Heidegger è una volpe. Questa è la vera storia della volpe Heidegger. C’era una volta una volpe, ma così priva di scaltrezza che non solo cadeva continuamente nelle trappole, ma non era in grado di percepire la differenza tra una trappola e ciò che non lo è. Questa volpe aveva un altro difetto…qualcosa non andava nella sua pelliccia,… così era del tutto sprovvista della naturale protezione contro gli inconvenienti della vita da volpe. Questa volpe, dopo aver girovagato per tutta la giovinezza nelle trappole di altra gente e non essendole rimasto sano per così dire neanche un pelo della sua pelliccia, prese la decisione di ritirarsi del tutto dal mondo delle volpi e si diede alla costruzione di una tana da volpe. Nella sua raccapricciante ignoranza su che cos’è una trappola e cosa non lo è, e con la sua incredibile perizia in trappole, pervenne ad un’idea nuovissima e – tra le volpi – inaudita: …..si costruì una tana come trappola, vi prese dimora, la diede ad intendere come una normale tana e….decise di trasformare la sua trappola – che andava bene solo per Lei – in trappola per altre volpi… Il che attesta di nuovo una grande ignoranza in materia di trappole: nella sua trappola nessuno poteva entrare davvero… Perché ci stava già dentro Lei… Quindi la nostra volpe incappò nella bella trovata di addobbare la sua trappola nel più elegante dei modi e di munirla di chiari segni che inequivocabilmente dicessero: “Venite tutti qui, qui c’è una trappola, la più bella trappola del mondo!”. Da quel momento in poi fu chiarissimo che in questa trappola mai nessuna Volpe avrebbe potuto introdursi per errore senza volerlo. E tuttavia ne vennero molte. Perché questa trappola alla nostra volpe serviva da tana… E se si voleva farle visita nella tana dove abitava si doveva di necessità entrare nella sua trappola… Da cui, certo, chiunque poteva uscire ed andarsene….tranne lei stessa… La trappola le era stata letteralmente costruita addosso. La volpe che abitava la trappola diceva, tutta fiera: “Entrano in così tanti nella mia tana, sono diventata la volpe migliore di tutte”…. Ed anche in questo caso c’era qualcosa di vero: nessuno conosce le trappole meglio di chi passa tutta la vita in una trappola».
Non è affatto nostra intenzione – con la soglia di cui sopra –, ridurre l’antisemitismo di Heidegger ad una mera questione di indecisione esistenzialistica, o ad una paradossale “apertura che si chiude su se stessa”, come in questa metafora della volpe nella tana. L’abisso delle sue pagine antisemite dei “Quaderni neri” è profondissimo e carico di colpe inemendabili. Semmai, anche da questo ritratto della Arendt emergono, in Heidegger, aporie e paradossi che arrivano a fendere la stessa figura, l’immagine, il “destino” di quell’Essere, al cui accadere, al cui “darsi”, sempre eventuale, il Dasein può/deve saper corrispondere, proiettandosi verso le sue eventuali possibilità. Infatti, se proviamo a guardare, con gli occhi di Heidegger, l’Essere – il cui accadere, sappiamo che “si dà” ogni volta nel suo frangersi storico – a partire dalla modalità in cui egli concettualizza la “questione ebraica”, è come se esso – “l’Essere” – gli apparisse o si manifestasse quale “Inizio atemporale”, “origine pura” e incontaminata, un’autocnia autentica, una dimensione eternamente radicata e immutabile, cui poter accedere nella sua purezza, nella sua pienezza: immagine che, paradossalmente, sembra ricacciare indietro Heidegger in una sorta di inizio pensato metafisicamente, che era piuttosto ciò che egli aveva provato a lasciarsi alle spalle, consegnando l’idea di una “origine pura” a quella lunga stagione della metafisica occidentale, con cui aveva fatto i conti – d‘altra parte: che senso avrebbe potuto altrimenti avere quel nesso tra Essere e Tempo, Essere e storia, attraverso cui egli intendeva rompere con l’intera tradizione della metafisica occidentale? Paradossalmente, proprio l’opposto di quella apertura anarchica e infondata che, nella chiusura e nella fine di tutti gli “stampi metafisici” – per dirla con le parole di quel Reiner Schürmann, che ci ha lasciato, forse, una delle più suggestive interpretazioni di un Heidegger, “letto” a partire dalla fine22 – era sembrato inaugurare quell’Essere come Ereignis (“Evento”) che, almeno a parere della critica più avvertita del ‘900, costituirebbe l’Heidegger più “vero”, più “produttivo”, più autentico.
E’ comprensibile, pertanto – senza con ciò sminuire la portata della scena drammatica, ingiustificabile e inemendabile in cui Heidegger inchioda, e umilia, nei Quaderni neri, la “questione ebraica” – che, seguendo la prima immagine dell’Essere che abbiamo provato a delineare sopra, dentro le aporie e i paradossi rilevati, l’Ebreo, proprio per quel suo albergare deserti, per il suo eterno sradicamento – la sua erranza sconfinata, il suo esodo infinito, il suo anarchico trascendersi –, mini l’Essere, ne metta «a repentaglio l’incolumità e la purezza, ne sovvert[a] anarchicamente l’arché […]. Gli ebrei sono testimoni scomodi della non coincidenza di sé con sé, dell’espropriazione immemoriale, dell’alterità insuperabile, dell’impossibilità di essere presso di sé […], intralciano ogni progetto di appropriazione, ogni passione di padronanza, ogni ossessione di dominio, ogni fondazione e autofondazione, ogni volontà di volere, ogni compulsione al compimento. Perciò il Nazionalismo li ha eletti a nemici» (Di Cesare, ivi, 215-216).
Da quest’ultimo punto di vista, non costituisce, infatti, un altro radicale paradosso il fatto che Marlène Zarader abbia potuto parlare di un “debito impensato”23, a proposito del rapporto tra Heidegger e la tradizione ebraica? Come a dirci che le figure dell’Essere a cui tende, da ultimo, l’approdo heideggeriano, anziché ripetere l’eco di una tradizione greca, manifesti piuttosto una vicinanza a quella biblica? Quell’impensato che pur attraversa lo stesso Heidegger, il quale, mentre attinge e sembra essere prossimo, inconsapevolmente, a quest’ultima tradizione, paradossalmente si costruisce un’essenza, un’idea, un’immagine metafisica e negativa, nichilistica di quell’Ebreo che, al contrario, avrebbe dovuto allontanarlo da una concezione di un Essere, quale sorgente pura, “autenticità” cui approdare, “inizio incontaminato”. Heidegger inchioda e ricaccia così nel nichilismo proprio quell’ebraismo e quegli ebrei che dal peggiore, ferino e razziale nichilismo (nazista) saranno annientati: vittime innocenti nei campi di sterminio. Escludere gli ebrei da ogni “relazione” con l’Essere, non ha pertanto avuto l’esito agghiacciante di aver esposto, confinato il Dasein proprio nel luogo mortale, mortifero, tanatopolitico del suo stesso fallimento? L’ostinato “silenzio”, mantenuto da Heidegger, è forse il segno del suo stesso sgomento di fronte all’indicibilità di quell’abisso che egli stesso ha pur pensato ed evocato, al punto da trattenersi poi nel silenzio e nell’oscurità interiore della sua coscienza, alla luce del dis-velamento di quell’esperienza innominabile e inemendabile che è stata la Shoah? Cosa dire, come continuare a pensare, pertanto, quell’evento dell’Essere, consegnato proprio nell’alterità irriducibile, sempre “a venire”, di un Altro/altro assolutamente “improgrammabile”, inesprimibile? Di quel volto indicibile – sì, straniero”, simul, certo: hospes e hostis – che, da Lévinas a Derrida a Nancy, costituisce il cuore delle radicali domande che il suo stesso pensiero filosofico ci ha lasciato in eredità24? Come pensare, allora, o meglio: è ancora possibile pensare, a partire – per dirla con il Nancy de L’esperienza della libertà – da quello «spazio lasciato libero da Heidegger»25, oggi che la tremenda emersione dei suoi Schwarze Hefte riapre una ferita che, non solo non si è mai rimarginata, ma ha inciso per lunghi decenni nella viva carne di un pensiero già contaminato e trattenuto nel suo colpevole silenzio?
1 Jacques Derrida, in Il silenzio di Heidegger, un breve intervento compreso nel volume collettaneo, Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida 1992, con un’introduzione di Eugenio Mazzarella e che traduce il volume, curato da Gunther Neske e Emil Kettering per Pfullingen nel 1988, comprendente una serie di testimonianze, ricordi e giudizi sui rapporti controversi tra “Heidegger e la politica”, espressi da alcune delle voci più autorevoli (non tutte filo-heideggeriane) della filosofia del ‘900 – tra questi, per citare i maggiori, Hans Jonas, Hugo Ott, Emmanuel Lévinas, Karl Löwith, Karl Jaspers, Hans Barth e altri.
2 Victor Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri 1988.
3 François Fédier, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, EGEA 1993.
4 Hans-Georg Gadamer, Superficialità e ignoranza. In merito alla pubblicazione di Victor Farías, in Risposta, cit.
5 Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, da poco disponibile in traduzione italiana, col titolo Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro 2012.
6 Rüdiger Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi 1994; Hugo Ott, Martin Heidegger. Sentieri biografici, SugarcoEdizioni 1988.
7 Fèdéric De Towarnichi, Ricordi di un messaggero della foresta nera. Incontro ad Heidegger, Diabasis 2005.
8 Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet 1996, con una densa introduzione di Giorgio Agamben e un pregevole saggio di Miguel Abensour.
9 Emmanuel Lévinas, Ammirazione e delusione, in Risposta, cit., p. 187.
10 Martin Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi 2002, pagg. 49-50 (a cura di Franco Volpi). La frase è contenuta nella seconda Conferenza pronunciata a Brema nel 1949, dal titolo L’impianto (termine che traduce quel “Gestell”, concetto e tema centrale nel pensiero sulla tecnica dello Heidegger della “svolta”).
11 Philippe Lacoue-Labarth, La finzione del politico. Heidegger, l’arte e la politica, Il Nuovo Melangolo 1991.
12 Sul concetto e sugli esiti della “tanatopolitica” nei totalitarismi del ‘900, Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi 2004.
13 Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda 2011.
14 Sulla storia di questo “mancato chiarimento” o sull’irrisolto colloquio, tra il grande poeta e il filosofo tedesco, si vedano i bei lavori di Bruno Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, Cronopio 2002; James K. Lyon, Paul Celan e Martin Heidegger: An unresolved conversation, 1951-1970, Johns Hopkins University Press 2006; Duque Félix e Vincenzo Vitiello, Celan Heidegger, Mimesis 2011; e quello più recente della psicanalista Laura Darsiè, Il grido e il silenzio. Un in-contro tra Celan e Heidegger, Mimesis 2013.
15 Al riguardo, fondamentale rimane “Il Meridiano” Mondadori, dedicato a Poesie Paul Celan, Mondadori 1997, con una straordinaria introduzione critica di Giuseppe Bevilacqua.
16 Theodor W. Adorno, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, 1989, con una pregevole introduzione di Remo Bodei.
17 Tralasciamo, per comprensibili ragioni, la mole di interventi, giudizi, polemiche, prese di distanze che hanno inondato sia le pagine di riviste filosofiche di tutto il mondo sia le pagine culturali dei più importanti quotidiani, a seguito della pubblicazione degli Schwarze Hefte – i “Quaderni neri” – di Heidegger e del dibattito che è seguito alla contestuale pubblicazione del saggio della Di Cesare. Naturalmente, il nostro commento critico sul plesso Heidegger/antisemitismo seguirà lo svolgimento del saggio della Di Cesare. Diamo poi qui conto di altri due lavori significativi – col contributo di diversi studiosi – che hanno rilanciato il confronto filosofico sullo stesso tema, alla luce della pubblicazione dei “Quaderni Neri”: Adriano Fabris (a cura), Metafisica e antisemitismo. I ‘Quaderni neri’ di Heidegger tra filosofia e politica, Edizioni ETS 2014; Francesca Brencio (a cura), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano 2015. Peter Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, Bompiani 2015; Id., Saggi su Heidegger. Adyton. Fuga dall’erramento, ETS, 2017; AA.VV. (a cura di Donatella Di Cesare), I quaderni neri di Heidegger, Mimesis 2016.
18 Hannah Arendt, Illuminismo e questione ebraica, Cronopio 2009, p. 7.
19 Imprescindibile, a tal proposito, Martin Heidegger, L’autoaffermazione dell’Università tedesca. Il rettorato 1933/934, Il Nuovo Melangolo 2002 (a cura di Carlo Angelino).
20 Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Adelphi 2007 (a cura di Franco Volpi).
21 Questo aneddoto è possibile trovarlo nel volume Hannah Arendt – Martin Heidegger Lettere 1925-1975, edizioni di Comunità (a cura di Massimo Bonola), p. 276. Si tratta del carteggio integrale che scandisce la storia del loro travagliato legame sentimentale.
22 Reiner Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, Il Mulino 1995.
23 Merlène Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, Vita e Pensiero, 1995
24 Oltre i “grandi” sopra menzionati, meritano di essere anche citati i lavori di alcuni studiosi che sul plesso estraneità/ospitalità hanno offerto alcune prove significative: Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri 2003; Id., L’estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il Melangolo 2008; Bernhard Wandelfels, Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina 2008; Umberto Curi, Straniero, Raffaello Cortina 2010.
25 Jean-Luc Nancy, L’esperienza della libertà, Einaudi 2000, pag. 35. Ma di Nancy, sempre su Heidegger, si veda pure, Sull’agire. Heidegger e l’etica, Cronopio, 2005.