Bellezza e caducità di Stefano Ferrari

Ci sono in realtà poche occasioni in cui Freud parla espressamente del tema della
bellezza. Oltre che nel saggio Caducità del 1915, che analizzeremo dettagliatamente
in questa relazione, Freud tratta della bellezza anche in un passaggio importante del
Disagio della civiltà del 1929, che a sua volta riprende una preziosa indicazione che
si trova già nei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905. Se nel saggio del 1915,
almeno in prima battuta, la bellezza è considerata in una prospettiva di astrazione
ideale, associata a qualcosa di nobile e puro – quasi un dato acquisito che dovrebbe
presupporre la disinteressata e incondizionata ammirazione dell’uomo – negli altri
due testi abbiamo un riferimento diretto ed esplicito alla sfera della sessualità, dove la
bellezza costituisce l’attributo di cui l’oggetto sessuale si serve per accendere il
desiderio: bellezza quindi come attrazione. Due prospettive apparentemente molto
distanti, ma che rivelano invece, come vedremo, una loro paradossale contiguità
proprio nel segno della caducità.
Partiamo comunque dal testo del 1915 e rivediamone i contenuti essenziali. Durante
una passeggiata d’estate di fronte allo straordinario spettacolo della “bellezza della
natura” in mezzo a una contrada in piena fioritura, Freud si accorge che i suoi due
compagni di viaggio (un poeta e un amico silenzioso, che secondo la critica più
accreditata sarebbero stati Rilke e Lou Andreas-Salomé), pur ammirando quella
bellezza non ne traevano piacere. Soprattutto il poeta è rattristato dal presupposto
della sua precarietà: “Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a
perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa” (VIII, 173).
L’osservazione riguarda dapprima il bello naturale, quello del paesaggio (qualcosa
che per definizione dura poco, che passa da una stagione all’altra – ma che al tempo
stesso, proprio per il loro perenne ritorno, può retrospettivamente evocare una specie
di eternità, come osserverà Freud poco più avanti). Ma il poeta estende
immediatamente questo senso della caducità “a ogni bellezza umana, come tutto ciò
che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli
avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era
destinato” (Ibid).
Secondo Freud l’atteggiamento degli uomini di fronte alla caducità può dar luogo a
due reazioni distinte: quella razionale e consapevole del poeta, che si esprime
attraverso un “doloroso tedio universale” oppure quella di una ingenua ribellione
nei confronti di un dato di realtà che contrasta con le nostre aspirazioni: “Ma questa
esigenza di eternità – scrive –̀ è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio
per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero.”
Freud si fa invece portavoce di un diverso atteggiamento: la caducità costituisce per
lui un valore aggiunto: “Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello
implichi un suo svilimento. Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della
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caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento
aumenta il suo pregio […] Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua
fioritura ci appare meno splendida”(VIII, 174).
E se sulle prime Freud con questo riferimento al valore della rarità nel tempo, sembra
distinguere un bello più perituro come quello naturale, sottoposto al trascorrere delle
stagioni, o quello ancora più effimero della “bellezza del corpo e del volto umano”
da un bello duraturo come quello dell’arte, allarga poi la sua prospettiva a una
dimensione che comprende insieme alla “bellezza” e alla “perfezione dell’opera
d’arte” anche quella della “creazione intellettuale”, in una dimensione che trascende
paradossalmente i limiti intrinseci dell’umana esistenza – perché “il valore di tutta
questa bellezza e perfezione – dice – è determinato soltanto dal suo significato per la
nostra sensibilità viva, non ha quindi bisogno di sopravviverle e per questo è
indipendente dalla durata temporale assoluta.”
Freud attribuisce la mancata capacità di godimento da parte dei suoi amici
all’interferenza del lavoro del lutto: “Doveva essere stata la ribellione psichica
contro la tristezza a svilir loro il godimento del bello. L’idea che quella bellezza
fosse effimera faceva presentire ai due esseri sensibili il lutto per la sua fine, e poiché
l’anima rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro
godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità” (Ibid.).
A questo punto Freud si sofferma brevemente, ma anche in maniera molto puntuale,
sulle dinamiche specifiche di quel “grande enigma” che è il lutto, a cui, come si
ricorderà, aveva dedicato in quello stesso anno (1915) un saggio davvero
fondamentale. Il lutto, come è noto, riguarda la nostra reazione alla perdita
dell’oggetto d’amore e ha strettamente a che fare con le dinamiche della nostra libido.
Dunque, anche nel saggio sulla caducità l’apprezzamento della bellezza viene
espressamente collegato al fattore libidico. Possiamo allora, a questo punto,
riprendere i due passaggi citati all’inizio in cui Freud collega la bellezza alla
sessualità. Il primo, all’interno dei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905 appare,
come dire, più tecnico e si riferisce alla bellezza come attrattiva dell’oggetto sessuale
(è “la selezione naturale – scrive – [che] incoraggia l’oggetto sessuale a sviluppare
la sua bellezza”(IV, 469). L’aspetto interessante di questo passo riguarda l’attenzione
alla problematica del guardare, quando la meta di questo “sguardo sessualmente
eccitato” viene “deviata (‘sublimata’) nell’elemento artistico” (ibid). Fatto sta –
prosegue Freud – che alla “maggior parte delle persone normali” “il piacere di
guardare” “dà […] la possibilità di dirigere in certa misura la loro libido verso
mete artistiche superiori” (IV, 470). Vale la pena notare che questo primo richiamo
all’idea che le arti visive costituiscano una forma di sublimazione della pulsione
voyeuristica, che per molti aspetti sembra appartenere a una concezione
contrassegnata dal riduttivismo delle prime prove di psicoanalisi applicata, in qualche
misura trova una sua valida giustificazione proprio nella specificità del riferimento
alla sfera sessuale. Infatti Freud nel Terzo saggio, prima di riprendere il tema della
“bellezza” dell’oggetto sessuale in relazione allo sguardo, afferma che se, da un lato,
“la tensione dell’eccitazione sessuale” è da annoverare tra “i sentimenti di
dispiacere”, dall’altro, è un “fatto che tale eccitazione viene senza dubbio sentita
come piacevole” (IV, 516).
Del resto, il contesto di questo paragrafo dei Tre saggi riguarda le dinamiche del
“piacere preliminare” che, come sappiamo, caratterizzano gli aspetti più
eminentemente formali del piacere estetico, che in quanto tale è un piacere puramente
tensivo, tutto concentrato sull’attesa di una soddisfazione che non è sempre garantita
e in qualche caso neppure voluta – una dimensione che, a sua volta, nasconde (o
rivela) certi enigmi della caducità. È comunque in questo quadro generale che va
inserita la correlazione che fa Freud tra piacere di guardare, bellezza e sessualità: “La
zona forse più lontana dall’oggetto sessuale, l’occhio, si trova – nelle condizioni del
corteggiamento dell’oggetto – più spesso di tutte le altre nella situazione di essere
stimolato da quella particolare qualità dell’eccitamento proveniente da ciò che, nel
caso dell’oggetto sessuale, noi chiamiamo bellezza. I pregi dell’oggetto sessuale
vengono perciò chiamati anche “attrattive” (Ibid.).
Ritroviamo questo stesso concetto della bellezza come attrattiva dell’oggetto sessuale
molti anni dopo nel Disagio della civiltà (1929), dove Freud, dopo aver lamentato
che nessuna scienza estetica “è stata in grado di fornire una spiegazione circa la
natura e l’origine della bellezza”, scrive: “Purtroppo anche la psicoanalisi ha
pochissimo da dire sulla bellezza. Una cosa sola sembra certa: che l’amore per il
bello tragga origine dalla sensitività sessuale; esso sarebbe un classico esempio di
impulso inibito nella meta. ‘Bellezza’ e ‘attrattiva’ sono originariamente attributi
dell’oggetto sessuale. È per altro notevole che gli organi genitali, la cui vista è
sempre eccitante, quasi mai sono ritenuti belli, e invece sembra che il carattere della
bellezza appartenga a certi caratteri sessuali secondari” (X, 574-75). E con questa
affermazione si conclude nel saggio del 1929 il riferimento di Freud al tema della
bellezza.
Al di là del mio breve e allusivo accenno di cui sopra, ci si chiederà che cosa ha a che
fare tutto questo con la “caducità”. Ebbene, dobbiamo fare un piccolo passo indietro
e ricordare che il contesto in cui si colloca questa affermazione di Freud del 1929
rientra in una prospettiva molto più ampia e speculativa rispetto a quella del 1905, e
riguarda sostanzialmente le strategie con cui l’uomo cerca di difendersi dal dolore.
All’interno di questo quadro generale, Freud parla della ricerca del piacere e del
raggiungimento della felicità – una dimensione che sembra trovarsi solo nell’amore:
“Sto parlando naturalmente di quell’indirizzo della vita che fa dell’amore il centro di
tutto, attendendosi ogni soddisfazione dall’amare e dall’essere amati […] Una delle
forme in cui l’amore si manifesta, l’amore sessuale, ci ha procurato la più intensa
esperienza di una travolgente sensazione di piacere, fornendoci il modello di quel
che andiamo cercando quando inseguiamo la felicità”(X, 573-74). Ma ecco che
subito si insinua la paura del dolore, della perdita e il collegamento dunque con il
motivo del lutto. Aggiunge infatti Freud qualche dopo: “Mai come quando amiamo
prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto
amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici” (X, 574): una notazione
specifica che, nel quadro generale del saggio, evoca da vicino certe osservazioni di
Proust, che sulla caducità della passione d’amore aveva scritto pagine per molti versi
assonanti con il testo di Freud.
Ecco, è proprio in questo contesto, dopo aver evidenziato i limiti di una ricerca della
felicità affidata soltanto al desiderio e, lo possiamo ben dire, alla caducità delle
vicende amorose, che troviamo, un po’ inaspettatamente, il primo e più suggestivo
riferimento al tema della bellezza. Vale la pena citare ampiamente questo passo:
“Possiamo inserire qui l’interessante caso in cui la felicità nella vita viene cercata
prevalentemente nel godimento della bellezza, dovunque essa si presenti ai nostri
sensi e al nostro giudizio: la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti
naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Questo
atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione
contro la sofferenza incombente, ma può in grande misura compensarla. Il
godimento della bellezza si distingue per un suo modo di sentire particolare,
leggermente inebriante. L’utilità della bellezza non è evidente, che sia necessaria
alla civiltà non risulta a prima vista, eppure la civiltà non potrebbe farne a meno”
(X, 574).
Prima di tornare ad analizzare il saggio sulla caducità, vorrei sottolineare due
elementi significativi di questa citazione: uno riguarda più da vicino la dimensione
della sessualità, dove l’idea un po’ grossolana di una bellezza come mera attrattiva
dell’oggetto sessuale volta a eccitare il desiderio, si trasforma – possiamo ben dire, si
sublima – in una formula molto più sottile e suggestiva, dove il piacere del bello, dice
Freud, “si distingue per un suo modo di sentire particolare, leggermente inebriante”.
L’altro elemento, che troviamo all’inizio della citazione, ci consente di riprendere più
facilmente, e con qualche elemento in più, il filo del discorso del saggio del 1915. Si
ricorderà che all’inizio del testo Freud afferma che il poeta “ammirava la bellezza
della natura […] ma non ne traeva gioia”: in altre parole riconosceva, ammetteva
che ciò che vedeva era bello, ma non ne ricavava una sensazione di piacere: è già
implicita la distinzione che troviamo nel Disagio della civiltà, dove si dice
chiaramente che la bellezza può essere qualcosa che riguarda sia i “sensi” che il
“giudizio” – dovunque essa si presenti ai nostri sensi e al nostro giudizio. Il fatto di
riconoscere che qualcosa è bello non significa trarne necessariamente piacere, ma se
ci pensiamo, dobbiamo ammettere che quel giudizio è stato comunque preceduto da
una sensazione: sensazione che ha dato luogo, come adesso vedremo, a una forma di
difesa basata sulla scissione, o meglio sullo sdoppiamento.
Procediamo con ordine – seppure con il rischio di qualche inevitabile ripetizione.
Anche nel saggio sulla caducità la fruizione del bello viene implicitamente omologata
a un investimento libidico, di cui in quel caso si pre-sente, si prefigura la perdita. Ma
resta il fatto che l’apprezzamento della bellezza, il suo piacere sia considerato
fondamentalmente un piacere erotico, al pari di quello della nostra relazione con
l’oggetto amato, che rischiamo di perdere. In questo caso però l’oggetto è ancora
vivo e presente, ma non sappiamo apprezzarlo, o meglio, non traiamo da esso tutto il
piacere che ci aspetteremmo, perché una parte della nostra attività psichica è
impegnata, assorbita nel lavoro del lutto, cioè nella constatazione della sua
imminente perdita e nell’attivazione dei meccanismi di elaborazione. Anche in questo
caso, paradossalmente, la libido mostra una sua “vischiosità”, nel senso che viene
come bloccata e impedita nei suoi spostamenti: l’oggetto è perfettamente disponibile,
anzi si manifesta in tutta la sua bellezza, ma noi siamo incapaci di un investimento
diretto e la libido resta come sospesa… Mentre invece, secondo Freud, come
abbiamo visto, questo impedimento non ha ragione di essere, in quanto “il valore di
tutta questa bellezza e perfezione [dovrebbe essere] determinato soltanto dal suo
significato per la nostra sensibilità viva, non [dovrebbe avere] quindi bisogno di
sopravviverle e per questo [dovrebbe essere] indipendente dalla durata temporale
assoluta.”
Che cosa succede, dunque? Tecnicamente il mancato e diretto godimento dipende dal
fatto che il lutto, che comunque si è attivato, ci induce in una condizione depressiva:
la nostra attività psichica è assorbita da questo bisogno di constatare la perdita e di
riviverla. Lo sappiamo bene: chi è in lutto non è in grado di operare altri investimenti.
D’accordo, ma perché si instaura un lavoro del lutto, cioè una reazione a una perdita,
prima che essa sia effettivamente avvenuta? Si tratta chiaramente di un meccanismo
di difesa preventivo: mi ribello alla perdita futura, che so che avverrà, elaborando in
anticipo il dolore che proverò quando essa sarà avvenuta: mi preparo già prima per
soffrire meno. È un meccanismo opposto e complementare a quello che troviamo
descritto in Al di là del principio di piacere (1920) a proposito dei sogni della nevrosi
traumatica: in quel caso si trattava di elaborare retrospettivamente le difese che erano
state travolte dall’improvvisa e inaspettata violenza del trauma, qui vengono
elaborate preventivamente.
In ogni caso, la consapevolezza della caducità, se impedisce un godimento pieno
(che, come dice Freud, viene “svilito” ma non annullato), non impedisce comunque il
riconoscimento e l’ammirazione per il bello: semplicemente non se ne trae tutto il
piacere che ci aspetteremmo: “il poeta ammirava la bellezza […] ma non ne traeva
gioia”. Fatto sta che la “fruizione” della bellezza non viene meno, è solo turbata,
“svilita”… Ma chi dice che la “fruizione” artistica (e qui tocchiamo un tasto delicato)
debba essere per forza gioia e piacere? L’ammirazione è già di per sé una forma di
apprezzamento e quindi di fruizione – ricordiamo ancora una volta la formula di
Freud: “dovunque essa si presenti ai nostri sensi e al nostro giudizio” …
Come abbiamo preannunciato, dobbiamo ammettere che anche in questo caso
assistiamo a una forma di sdoppiamento dell’Io – non a caso Freud parla
espressamente di “un forte fattore affettivo” che sarebbe intervenuto “a turbare il
loro giudizio”: una parte dell’Io ammira e prende atto (riconosce) la bellezza e
un’altra parte si ribella alla caducità, o meglio si protegge dal dolore che la futura
perdita potrebbe cagionare. Lo sdoppiamento è sempre una forma di difesa estrema, e
anche in questo caso – come in tutte le dinamiche che vedono coinvolto il motivo del
Doppio – la difesa riguarda qualcosa di più profondo e spaventoso che non il
semplice sentimento della perdita del bello: ciò che la caducità ci fa presentire è
infatti l’imminenza della nostra perdita, l’imminenza della nostra stessa morte.
Ma un altro paradosso di questo breve scritto di Freud riguarda il ruolo che l’arte di
per sé ha sempre rappresentato nel tentativo di eludere la caducità e riuscire a
sopravviverle: l’arte è sempre stata considerata come un modo per rendere “eterna” o
comunque più duratura l’impronta del nostro esistere (si pensi alla funzione
dell’autoritratto e al fatto che in fondo ogni opera d’arte è anche una sorta di
autoritratto). Probabilmente non è un caso che il protagonista di questo scritto sia
proprio un poeta, ai cui versi, per definizione e statuto, dovrebbe essere in qualche
misura assegnato il compito disperato di contrastare e riscattare la precarietà della
bellezza.
Se ora consideriamo la risposta di Freud all’enigma della caducità, vediamo che il
suo atteggiamento, che non è né quello ingenuo della protesta radicale, né quello
paralizzante del lutto preventivo, prevede un utilizzo del meccanismo dello
sdoppiamento per certi aspetti ancora più paradossale e spregiudicato, che a livello
metapsicologico potremmo ascrivere alla maturità di una raggiunta plasticità dell’Io,
in grado tollerare ed elaborare le scissioni. Egli dimostra così la forza e la ricchezza
di un (im)possibile equilibrio tra “sentimento” e “giudizio”, secondo una formula che
rasenta l’ovvietà che si nasconde sempre dietro la volontà o il bisogno di continuare a
vivere – nonostante tutto. Freud è colui che, pur riconoscendo e accettando la
precarietà delle cose e l’insensatezza del mondo, è comunque capace (o afferma di
esserlo) di trovare un modo per godere delle cose che passano nella loro attualità.
Insomma, un’astuta variazione dell’antico “carpe diem”. Come dire che solo
accettando fino in fondo il non senso si può trovare un senso alla vita. È il suo un
modo per rovesciare e riabilitare la Verleugnung: “Sì, lo so che tutto passa e si perde,
ma comunque io sono in grado di goderne…” In fondo il vero lutto anticipato lo ha
elaborato e in qualche misura portato a termine Freud. Solo così si può spiegare
l’ottimismo apparentemente un po’ troppo facile e ostentato con cui, dopo aver
ricordato i disastri della guerra, si chiude il saggio: “Una volta superato il lutto si
scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per
l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha
distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.”

SIRACUSA, 31 MARZO 2017

Stefano Ferrari

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