Relazione di Elena Alessiato

Karl Jaspers alla ricerca dell’uomo

Elena Alessiato

elena.alessiato@gmail.com

Jaspers è uno dei pochi filosofi per i quali la biografia gioca un ruolo molto importante per lo sviluppo del suo pensiero. Non è sempre così: moltissimi tra i maggiori pensatori nella storia hanno avuto una vita tutto sommato oscura e trascurabile.

Per Jaspers invece il vissuto costituì una sollecitazione fondamentale per la sua filosofia, a tal punto che è stato scritto: «Senza quella vita la sua stessa filosofia sarebbe stata certamente diversa» (F. Miano).

La vita di Jaspers si intreccia con la storia europea e tedesca del ‘900, e le tappe di elaborazione del suo vissuto coincidono spesso con momenti decisivi della Storia novecentesca, o sono riportabili in stretta connessione con essa.

Il motivo di questa interconnessione non è però solo di ordine meramente biografico-cronologico, ossia legato al fatto che questo pensatore è nato e morto in certi anni, e in mezzo sono successe molte cose che l’hanno sollecitato e costretto a prenderne atto in maniera altamente consapevole e intellettualmente elaborata.

Il motivo è di ordine primariamente filosofico: nella misura in cui la filosofia per Jaspers e la filosofia di Jaspers non è dottrina o esercizio logico, ma è Lebenspraxis, pratica di vita. Pratica di vita ed esercizio etico di esistenza.

Le vicende storiche, biografiche, personali, intellettuali, non costituiscono dunque uno sfondo neutro, ma diventano il materiale su cui la filosofia si esercita, diventano essi stessi occasione di filosofia. Ogni esperienza di vita può fornire spunto e impulso al pensare filosofico.

E infatti Jaspers, nella sua riflessione e nell’insieme dei suoi scritti, si è occupato di moltissimi temi che hanno a che fare con la vita, il vissuto dell’uomo, anche nei suoi aspetti più quotidiani: i grandi temi dell’essere, della trascendenza, della libertà, calati nell’esperienza del quotidiano – dell’amore, dei rapporti d’amicizia, delle forme dell’interazione sociale, del lavoro, della fedeltà, dell’educazione….

Il rapporto di vita e filosofia in Jaspers si specifica però nel segno della storicità – e questo è un elemento essenziale per comprendere il senso della filosofia come Lebenspraxis.

La dimensione del mondo è fondamentale in Jaspers: il mondo inteso come realtà sociale e relazionale, come realtà storica. L’uomo non è un soggetto avulso e sradicabile dalle condizioni in cui vive, si forma e opera (opera con il pensiero, pensando, e nell’azione, agendo nel mondo) ma al contrario è pensabile solo a partire da e in relazione con esse. L’uomo diventa ciò che è solo nel mondo.

Tenendo presente queste premesse capiamo perché un discorso di presentazione di Jaspers non può prescindere dal suo vissuto, il quale diventa più che semplice dato di arricchimento e contorno, ma risulta consustanziale alle dinamiche di articolazione e sviluppo del suo pensiero.

Nato nel 1883 a Oldenburg, profondo Nord, città affacciata sulla costa ventosa del Mare del Nord, si rivolse a studi di giurisprudenza, che presto abbandonò. Si risolse allora a studiare medicina, prima con brevi soggiorni a Monaco e Berlino, poi ad Heidelberg, città universitaria nella valle del Neckar, sede della più antica università tedesca, dove rimase fino al 1948. In particolare si indirizzò a studi di psicologia e psichiatria, prestando anche servizio come assistente nella prestigiosa clinica psichiatrica della città. Ed è qui che venne a contatto con la malattia, malattie della mente e della personalità, disagi che, nei casi estremi, arrivavano a sfigurare il volto umano dell’uomo. A questo periodo risalgono i suoi primi studi sulla demenza e la gelosia, sul rapporto tra genio e follia (esplorato con riferimento alla personalità del pittore Van Gogh), sui nessi esplicativi tra stati di nostalgia e comportamenti criminali-criminosi.

In realtà però il primo contatto con la malattia Jaspers lo ebbe in modo molto più diretto e personale: Jaspers dovette convivere tutta la vita con la malattia. Già dall’infanzia mostrò segni di salute cagionevole, poi, ancora ragazzo, gli venne diagnosticata una grave malformazione cardio-respiratoria che condizionò l’intera sua esistenza: fu esonerato dal servizio militare, non poteva sottoporsi a sforzi, doveva trascorrere molto tempo in posizione sdraiata, o quanto meno non seduta.

Ci si può immaginare cosa questo voleva dire per uno studioso: era costretto a concentrare lo studio in poche ore consecutive (non più di due o tre al giorno), a limitare moltissimo i viaggi, le conferenze e le occasioni di pubblico dibattito, le comparse in pubblico non potevano prolungarsi per troppo tempo. Insomma, una vita necessariamente ritirata e solitaria, estremamente disciplinata e regolare, condotta con una pazienza metodica che era un chiaro segno non solo della serietà della malattia ma anche della consapevolezza e serietà con cui il malato Jaspers volle affrontarla, imparando a convivere con essa. Troviamo calato nel vissuto di Jaspers medesimo un’idea che sarà determinante nell’orientare e nel dare forma e contenuto ai suoi studi, ossia l’idea che la malattia – questo è l’atteggiamento mentale che emerge dalla biografia stessa del filosofo – non annulla la vita e l’umanità della persona, è semmai una forma di umanità che occorre imparare a gestire e disciplinare perché non abbia il sopravvento sulla personalità dell’uomo. L’uomo – sembra voler suggerire Jaspers – è più della sua malattia.

Il medesimo atteggiamento con cui Jaspers gestì la sua condizione di malato lo si ritrova nel modo in cui egli, da studioso, si rapportò ai fenomeni nosologici e patologici. Le sue osservazioni confluirono in un testo ponderoso uscito nel 1913 e che ebbe poi varie rielaborazioni ed edizioni (fino all’ultima degli anni Sessanta, che è quella che noi leggiamo). Rimane un testo, oltre che bellissimo e affascinante, di riferimento: la Psicopatologia generale, ove Jaspers dà conto della sua innovativa modalità di rapportarsi all’universo della malattia e dei malati e illustra una vasta riflessione critica sulle metodologie d’indagine.

Per capirne a pieno la portata innovativa e rivoluzionaria, che fa sì che sia ancora oggi un testo studiato dagli studenti di psicologia e psichiatria, occorre fare mente locale sullo stadio della scienza psichiatrica dell’epoca: la quale era dominata dall’influenza esercitata dalle teorie di impostazione positivista, che vedevano nella malattia un fenomeno meramente anatomico e fisiologico, il prodotto di una serie più o meno grave di disfunzioni e lesioni fisico-biologiche, nervose: non solo il corpo ma anche la mente umana era vista come una macchina, il cui ingranaggio di funzionamento a un certo punto si inceppava, provocando lo stato patologico, a cui si doveva rispondere con contromisure di incidenza necessariamente fisica e causale, secondo la logica lineare che lega tra loro causa ed effetto. Il fenomeno patologico andava spiegato e dove possibile curato con trattamenti clinici, medici, chimici. Lo studio psichiatrico e psicopatologico si limitava così a fornire una classificazione delle manifestazioni patologiche e una illustrazione dei sintomi morbosi. In questo modo il malato, il paziente, era ridotto a un “caso clinico”, un caso singolo di una tipologia patologica generale e formalizzata.

Jaspers non respinge in maniera radicale questa impostazione: si rende conto che, grazie anche all’ausilio delle nuove tecniche e dei nuovi apparecchi di indagine, può essere utile disporre di dati matematici, fisici, chimici precisi sulle varie sintomatologie. Tuttavia non può essere quella l’unica prospettiva né l’unica metodologia. Questa va semmai integrata con un altro tipo di approccio che Jaspers elabora mediante sollecitazioni provenienti dalla filosofia (Nietzsche, Kierkegaard, Dilthey, Husserl) e che chiama della “psicologia comprendente”. Centrali in questo approccio sono due principi: 1) l’idea di personalità come un tutto e quella della 2) malattia come umanità.

Il primo principio consiste nell’idea che il soggetto è un tutto composto da varie componenti che interagiscono tra loro (corporeità, volontà, intelligenza, sentimento) ed è un intero che diviene e si sviluppa in un contesto storico, sociale, culturale, ambientale. Questo significa che nello studio di una personalità occorre tener conto di vari fattori anche esterni: l’importanza del contesto ambientale, delle relazioni sociali e dell’educazione, delle influenze esercitate sullo sviluppo della personalità dalla realtà famigliare, educativa e dalle esperienze individuali.

L’idea di persona evoca una idea di totalità che deve tener conto di questi aspetti senza che la ragione ne possa mai dare conto abbastanza esaurientemente.

Questa è la dinamica con cui Jaspers intende la personalità dell’uomo.

E quel che vale per ogni singolo uomo, vale naturalmente anche per il malato – anche per il malato mentale.

Questo permette di richiamare la seconda idea alla base del metodo di studio psicopatologico jaspersiano: l’idea per cui, rispetto alla vita, la malattia non costituisce un’alterità radicale, un’eccezione che esclude dalla vita, ma al contrario ne è una sua componente e possibilità, un suo costante rischio. La malattia è una forma della vita, per quanto negativa ed estrema.

Dalla Psicopatologia generale: «L’essere malati non è solo una eccezione che esclude dalla vita ma appartiene alla vita stessa come momento della sua ascesa, come pericolo superabile. […]

Sempre nuovi pensatori hanno concepito l’essere umano nel suo tutto come essere malato».

Una volta collocata la malattia nell’orizzonte comprensivo dell’umano, essa può allora essere fatta oggetto di interesse e di studio da parte del portatore presunto sano – o meno malato – al fine non solo di spiegare le cause della malattia, i sintomi, e individuare le possibili diagnosi e rimedi, ma anche comprendere, fare proprio il dolore dell’altro, avvicinarsi alla sua umanità sofferente.

Questo tipo di conoscenza è una conoscenza “dal di dentro”, nel senso che è possibile non mediante la rilevazione scientifica di dati oggettivi-fisiologici né mediante sola logica, bensì attraverso l’immedesimazione o empatia (Einfühlen) e la trasposizione nella vita psichica altrui, ossia attraverso un procedimento che coinvolge e fa perno sulla soggettività del paziente, da un lato, e dello psicopatologo, dall’altro. E questo è possibile in virtù della convinzione che sia proprio l’umanità condivisa a mettere in relazione il presunto sano e il presunto malato, medico e paziente. Il comune riferimento alla condizione umana fa sì che ciò che è «altro» venga percepito come (più) familiare, dal momento che «psichicamente l’uomo trova sempre nell’altro un suo simile, e solo così dal suo intimo può aiutarlo».

Vediamo quanto moderne siano le intuizioni di Jaspers in ambito psichiatrico-psicologico e come lo Jaspers medico sia sorretto dall’intenzione di cercare e comprendere l’uomo come totalità inesauribile.

Orbene, la medesima impostazione la si ritrova anche in filosofia. Si può affermare che la filosofia di Jaspers ha risentito in misura rilevante del suo approccio medico-psicologico. Nella sua Autobiografia filosofica Jaspers spiega la scelta di dedicarsi alla medicina con motivi che lui stesso definì filosofici, ossia perché interessato a conoscere la natura dell’uomo nel suo complesso.

Il filone filosofico a cui si fa ricondurre la filosofia di Jaspers è l’esistenzialismo, di cui è considerato essere, in Germania insieme a Martin Heidegger, uno dei principali esponenti e iniziatori.

Più propriamente per Jaspers si dovrebbe parlare di “Filosofia dell’esistenza” – dove l’acento è posto proprio sul termine Existenz.

Riducendo all’osso: in questo approccio si traccia una netta linea di separazione tra il semplice vivere e l’esistere. Si vive nel momento in cui si intende la vita come semplice soddisfacimento dei bisogni e delle funzioni vitali e se ci si accontenta del mondo delle cose, della realtà che si vede e ci circonda, si vive immersi nella dimensione solo orizzontale. L’esistere è qualcosa di più: si esiste nel momento in cui ci si accorge che il mondo delle cose, per quanto pieno di cose, non riesce a soddisfare i bisogni più profondi dell’essere umano, le sue domande di senso e le sue esigenze di valore, di riconoscimento, di comprensione, di accoglienza, i suoi bisogni emozionali e affettivi più profondi, non riesce a colmare quel senso di vuoto, ma anche di meraviglia e mistero, che lo coglie di fronte a certi eventi eccezionali che però appartengono pienamente, costitutivamente alla vita, come la nascita, la morte, gli affetti, il dolore. Colui che, di fronte a questi eventi, si pone delle domande, si interroga, si chiede come reagire, come proseguire, si avvia verso un percorso di responsabilizzazione che lo porta ad aprirsi verso dimensioni ulteriori, radicali, meta-fisiche (nel senso letterale di andare oltre la sola dimensione fisica delle cose e della realtà), dimensioni “altre”, trascendenti. Inizia così il percorso di esistenza, che è la modalità autentica di vita dell’uomo, perché è una modalità di vita etica: l’esistenza propriamente detta è caratterizzata dalla domanda instancabile di un senso etico e dalla ricerca di risposte di valore, di valori che diano un senso alla vita dell’uomo. Che diano un senso anche a ciò che sembra non avere senso.

È solo così che per Jaspers si diventa uomini, che si onora l’umanità presente in noi. In questo senso l’umanità non è un dato di fatto ma una conquista che nasce dal tentativo di trovare un ordine di senso, di comprensione, di orientamento etico a partire dal caos scomposto delle cose, dei fatti, della datità fattuale.

In questo percorso l’alleato dell’uomo è la ragione filosofica, la filosofia, la quale è quella forma di sapere pratico che pone la domanda sull’uomo, che interpella l’uomo nella sua essenza ed esistenza più intima e autentica.

La filosofia è quella disciplina che pone la domanda “che cosa è l’uomo?”.

Proprio questa nozione esistenziale ed etica di filosofia implica un ripudio delle astrazioni e delle facili generalizzazioni: implica semmai un forte radicamento nella concretezza, nella storicità dell’uomo, un’attenzione per l’uomo concreto, e concreto vuol dire un uomo calato in una dimensione storica e relazionale, nel suo essere cioè sempre situato in una realtà storica ben definita, in uno spazio e in un tempo precisi e precisabili, e in un contesto che è collettivo, che è popolato e ‘agito’, trasformato da più individui con i quali il singolo individuo entra in relazione.

La pratica che si occupa delle grandezze collettive, dell’uomo colto nella sua dimensione di vita collettiva, insieme con gli altri, è la politica.

Se è vero, come deve essere vero, che la filosofia deve occuparsi dell’uomo in tutte le sue dimensioni, occorre allora che la filosofia sia aperta anche alla dimensione del collettivo, della politica: non la può trascurare.

Jaspers arriverà alla conclusione che «non c’è grande filosofia senza pensiero politico».

L’interesse di Jaspers per la politica fu ancora una volta mediato dalla domanda sull’uomo, dall’interesse per l’uomo nella sua storicità, mediato dalla volontà di individuare le condizioni più adeguate per garantire all’uomo la piena corrispondenza dei suoi diritti e il riconoscimento inviolabile della sua umanità. Come nella medicina, come nella filosofia, così anche nella politica Jaspers cercò sempre ciò che permette all’essere umano di diventare propriamente se stesso, uomo, di onorare la sua umanità e realizzarla compiutamente.

L’interesse di Jaspers per la politica matura lentamente e nasce in lui dal constatare come della politica non si potesse, volenti o nolenti, fare a meno. E questo era stata la storia stessa a insegnarglielo, nel peggiore dei modi. Ossia attraverso ben due guerre mondiali e soprattutto gli orrori connessi con la seconda. Proprio in relazione alla politica si mostra in maniera evidente l’incidenza produttiva che l’esperienza storica ha avuto sul filosofo Jaspers, sul suo modo di pensare.

La lettura manichea che parla di una contrapposizione tra uno Jaspers apolitico prima e uno Jaspers politico dopo la seconda guerra mondiale, è un po’ troppo drastica e inesatta. Però è innegabile che la consapevolezza politica matura di Jaspers si ha a partire dal post ’45 e per mezzo delle riflessioni svolte sull’esperienza totalitaria.

In particolare vi è un lavoro che è considerato inaugurare la fase di impegno politico attivo di Jaspers come intellettuale politico. È quello in cui Jaspers prende posizione sul tema, spinoso, della colpa dei tedeschi in merito ai misfatti terrificanti della Seconda Guerra Mondiale: Die Schuldfrage.

L’importanza e la gravità del quesito sembrano già di per sé evidenti. Tuttavia la posizione di Jaspers a riguardo assume un peso e una rilevanza ulteriore se localizzata nel contesto storico in cui essa venne espressa.

Occorre prima di tutto ricordare che Karl Jaspers fu pesantemente colpito dai provvedimenti adottati dal regime nazista a partire dal 1933 e finalizzati alla ristrutturazione ideologico-politica dell’università.

Nel 1910 si era sposato con Gertrud Meier, di origine ebrea, sua infaticabile compagna e collaboratrice nella stesura e nella copia dei manoscritti.

Proprio per questa ragione Jaspers fu pesantemente colpito dai provvedimenti messi in atto dal regime nazista a partire dal 1933 che miravano alla Gleichschaltung, all’allineamento ideologico-politico dell’università e dell’intero mondo culturale tedesco. «L’ariano» Jaspers, sposato con una donna ebrea, fu posto di fronte all’alternativa: la moglie o la carriera. Avendo rifiutato il divorzio, gli fu sottratta la cattedra. Nel settembre 1937 fu sospeso dall’insegnamento e dalla partecipazione a qualsiasi attività accademica; dal 1938 gli fu imposto il divieto di pubblicazione. Negli archivi della polizia il suo nome risultò inserito tra le «procedure ebraiche», qualificato come nemico dello Stato e del popolo; la casa messa sotto controllo, il matrimonio minacciato di separazione forzata.

Dopo il licenziamento coatto gli si presentarono alcune possibilità di emigrazione e trasferimento in sedi universitarie straniere: ma in alcuni casi i tentativi fallirono, altre volte fu Jaspers stesso a rifiutare. Iniziarono così i lunghi anni della cosiddetta “emigrazione interna”, durante i quali continuò a vivere ad Heidelberg, ritirato a vita privata, sempre più emarginato dall’ambiente cittadino.

Anno dopo anno i coniugi Jaspers si prepararono al peggio. Le loro memorie recano traccia della comune risoluzione a darsi la morte insieme con il veleno nel caso in cui avessero avuto avvisaglie di una separazione forzata o peggio. In effetti, quando ormai tutto era perduto e la follia nazista faceva terra bruciata dietro di sé, venne fissata anche la data della loro deportazione: sarebbe dovuta avvenire alla metà di aprile 1945. 15 giorni prima la città di Heidelberg venne liberata dalle truppe statunitensi, che lì fissarono il loro quartier generale. Jaspers ebbe salva la vita e da quel momento coltivò un vivo senso di gratitudine per le potenze dell’Occidente democratico che si rifletterà anche nelle sue posizioni politiche e di filosofia politica degli anni a venire.

Uno dei primi provvedimenti presi dalle autorità americane fu la chiusura dell’Università, la più antica della Germania e certamente una delle più prestigiose d’Europa, ma fortemente compromessa con il regime nazista. Si trattava dunque di rifondare l’Ateneo su nuove basi, liberali e democratiche, e restituire all’Università lo slancio ideale che aveva perduto, fissando le finalità, le funzioni e i valori della sua azione all’interno del nuovo contesto civile e politico. In quest’opera di ricostituzione e rinnovamento fu coinvolto anche Jaspers, che tra i docenti era tra i più noti e credibili, visto il destino personale che lo aveva colpito. A causa della malattia all’apparato respiratorio che dalla nascita lo afflliggeva non potè ricoprire cariche pubbliche ma prestò il suo aiuto e la sua influenza.

La nuova costituzione accademica fu pronta per l’autunno 1945. Jaspers fu invitato a tenere la conferenza d’apertura. Nel settembre di quell’anno gli fu restituita la cattedra di filosofia che gli era stata sottratta nel 1937 e poté così riprendere la sua regolare attività di professore.

Le condizioni di lavoro erano, come si può immaginare, molto difficoltose: mancavano locali, aule e alloggi per gli studenti, carta, libri, riscaldamento, spesso anche i generi alimentari di prima necessità. Il numero degli studenti era però elevato e tra essi serpeggiavano i sentimenti più contrastanti: scetticismo, diffidenza verso i “liberatori”, stanchezza e un senso di umiliazione uniti al desiderio di ritornare al più presto alla normalità, resti di orgoglio nazionale uniti alla sfiducia e alla disillusione.

È in questo clima difficile che Jaspers salì in cattedra, dando prova di notevole coraggio e senso di onestà intellettuale, e anche di intuito storico: fu uno dei primissimi a trattare con strumenti intellettuali e logici una questione spinosa e scomoda, che inevitabilmente avrebbe segnato il futuro della Germania e la sua posizione di credibilità di fronte al mondo, quella della responsabilità e delle colpe dei tedeschi in relazione alla guerra e alla Shoa.

Jaspers trattò la questione nell’ambito del primo corso che offrì, nel semestre invernale ’45-46, quindi proprio a ridosso della fine del conflitto, quando ovunque vi erano ancora fumo e macerie: qui tenne un ciclo di lezioni sulla “situazione spirituale della Germania” e le lezioni riguardanti la questione centrale della colpa vennero poi stampate e pubblicate in un testo a sé: Die Schuldfrage, appunto.

Nel momento in cui il mondo intero accusava i tedeschi delle colpe più infamanti, si trattava per Jaspers di capire in che misura e in che modo quell’accusa fosse giusta e fondata, per non doverla passivamente subire, ma per assumerla consapevolmente su di sé e da lì trasformarla in un’occasione di rinascita civile. In questo intento, che regge e motiva lo scritto, sta il suo valore insieme politico ed etico: di etica politica.

In quel clima teso Jaspers, salendo in cattedra, fu severo e implacabile: espose a chiare parole la tesi per cui i tedeschi, in un modo o nell’altro, erano colpevoli o responsabili di quel che era accaduto. Argomentò che essi non potevano sottrarsi all’evidenza ma dovevano invece assumere su di sé la propria colpa, le proprie colpe. Egli distingue infatti vari tipi e vari livelli di colpa, di colpevolezza, di responsabilità. E proprio in queste distinzioni consiste il valore filosofico e intellettuale-concettuale della prestazione jaspersiana.

Ma al di là di queste articolazioni concettuali, pur importanti e molto stimolanti per la riflessione, preme osservare come alla base della meditazione di Jaspers sulle specificazioni del concetto di colpa applicate alla situazione spirituale e storica della Germania ci sia un doppio interesse: 1) quello di un cittadino, pensatore tedesco incredulo e amareggiato per il livello di aberrazione e brutalità raggiunto dal suo popolo e 2) una forte motivazione etica.

Entrambi gli intendimenti si raccolgono in una prospettiva a forte connotazione morale-religiosa che vede nella colpa, soprattutto nel riconoscimento della colpa e nella lucida assunzione di responsabilità, senza sconti, alibi o infingimenti, la condizione necessaria e indispensabile perché il popolo tedesco ritorni a meritare la fiducia e la stima del mondo intero, perché i tedeschi tornino a essere ammessi nella comunità civile dei popoli, dalla quale con la loro follia omicida si erano estromessi. L’assunzione palese e condivisa di responsabilità è l’unica, l’ultima possibilità ancora concessa ai tedeschi sopravvissuti e risparmiati perché il fatto di essere sopravvissuti abbia un senso, perché segni uno scarto qualitativo dotato di significato non egoistico. È quello l’unico modo non solo per onorare la memoria delle tante vite follemente perse e sciupate, ma anche per marcare l’inizio di un futuro che doveva essere radicalmente nuovo e che doveva rappresentare un nuovo modo di essere uomini e di essere tedeschi.

È questa la sfida a cui Karl Jaspers volle richiamare i connazionali con il suo scritto sulla Schuldfrage. Nelle intenzioni del filosofo il riconoscimento di colpa poteva e doveva servire come modalità intellettuale ma soprattutto etica e spirituale perché i tedeschi si facessero artefici di un moto di rinnovamento etico della realtà a partire da una condizione di confusione, incertezza politica e esistenziale, di caos.

Di nuovo, anche nella sua analisi politica della realtà storica e politica, troviamo quell’impulso, tipico di Jaspers, che vuole rintracciare a partire dall’informe, dal confuso, dall’anormale un ordine di senso, una ragione di significato, un principio normativo e ordinatore, che permetta di individuare, pur nella successione e nella sovrapposizione di fatti eccezionali ed eccezionalmente brutali, di traumi e dilemmi di cui la nostra esistenza di uomini è fatta, una ragione di significato sulla quale impostare una vita migliore per ciascuno e per tutti, un modo migliore di stare insieme.

Il riconoscimento di colpa e l’assunzione di responsabilità dovevano costituire, nella sua idea, il primo passo per poter avviare un processo di rinnovamento e rifondazione della politica, così da arrivare a costruire una politica “a misura di uomo” – una politica all’altezza dell’uomo e del suo valore.

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