Carissimi soci e amici, dopo un bimestre di figure eccezionali della cultura tedesca del ‘900 – Anders, Kraus, Schönberg e Dehmel – i cui riflessi si irradiarono in Italia con esiti ancora inesplorati – si pensi al Futurismo, alla musica contemporanea di Berio e al D’Annunzio amico personale di Dehmel – Novembre è stato dedicato a tre giganti dell”800, Schiller, Verdi e Leopardi, su cui ritorneremo già a Dicembre. Nel caffè letterario del 18 ci siamo diffusi sulla vita, le opere e la fortuna di Schiller. E’ vero certamente che le somiglianze fra artisti di epoche diverse, per di più non tanto lontane, appaiono frequenti. Sappiamo che in filosofia ciò è stato evidente: il Croce era notoriamente legato alla triade dell’idealismo tedesco, come pure il Vico e lo Herder sembrano appartenere allo stesso genere (e pensiamo che Karl Kraus sia la fonte primigenia di Dario Fo!). Se guardiamo a Schiller e a Leopardi, la nota distinzione fra poesia e ingenua e sentimentale li avvicina sia nella vita – malati e spessissimo infelici, tanto da morire il primo poco più che quarantenne e il secondo appena a 37 anni – che nelle opere, soprattutto nel frequente classicheggiare del loro verso. Che poi non ci siano tracce di Schiller in Leopardi se non un breve cenno piuttosto malevolo nello Zibaldone – dove è presente una presunta rivalità con Goethe – non è un dato sufficiente per escludere una qualche relazione. Giuseppe Mazzini, che di Schiller invece fu un notevole discepolo, ci ricorda che nel 1813 Leopardi a Recanati doveva conoscerlo bene, visto che era abbonato al Conciliatore di Pellico, dove apparvero molti scritti di Schiller, Del resto una delle poesie più famose di Schiller – Gli Dei della Grecia – troverebbe una eco nel canto del 1820 di Leopardi Alla primavera. Qui il tema comune ruota attorno alla nostalgia per la totalità dell’uomo rispetto alla natura, che avrebbe meglio sopportato il mal di vivere quotidiano nella cosiddetta età dell’oro, mitica età classica di Virgilio e Orazio. L’io lirico di Leopardi e di Schiller emergerebbe nel rimpianto di una primavera del mondo, dove l’uomo era Dio e gli uomini erano gli Dei dell’Olimpo. E invece il tempo attuale, altro non sarebbe stato che una dolorosa vecchiaia, dove la Natura – ovvero il Dio Cristiano di Schiller – aveva reso vano ogni speranza dell’uomo, frantumato nel suo crudele viaggio esistenziale verso la morte, inseguito per entrambi da una Natura e da un Destino inflessibile, genitori malevoli dai quali non c’era da aspettarsi alcun gesto d’amore. Ma l’analogia cessa proprio qui: benché il Dio di Schiller appariva irraggiungibile, quasi un Dio nascosto e lontano, razionale e utilitarista, tuttavia amava comunque l’uomo e gli concedeva di avere un minimo potere di reazione. E infatti, soprattutto nel Guglielmo Tell, un popolo oppresso si sollevava contro il tiranno e lo stesso Tell lo uccise, a significare il potere dell’uomo che può liberarsi dal Destino. Per Leopardi non è così: una delle battute del bel film di Martone è proprio figlia del pessimismo cosmico ineluttabile del Recanatese: come è possibile che masse di persone infelici possano diventarlo nel gioire della morte di un tiranno? Di più: Schiller credeva che il canto e la poesia fossero la via di salvezza per ricomporre l’ordine del mondo abbandonato dagli Dei. Ideale di bellezza che Verdi raccolse e applicò nel mondo della musica melodrammatica: il recitar cantando, la parola scenica e l’invenzione del vero, sono le linee guida che Fernando Gioviale ci ha fornito nel rileggere Il Don Carlo, opera melodrammatica tratta del Don Carlos di Schiller. La mediazione romantica fra le forme classiche e i nuovi contenuti del secolo trovavano in Verdi e nello stesso Leopardi ottima realizzazione. Toccherà però a Von Platen rendere un alternativo tributo all’ennesima polemica letteraria, ritrovando Questi nella bellezza il valore morale dell’esistenza quotidiana. Conflitto di idee che Martone ci ha rappresentato in una parte del suo film, quando l’Accademia Fiorentina negò a Leopardi un premo letterario perché troppo moderno. Ma classicamente, il genio di Recanati fece come la volpe di Fedro, che non potendo prendere l’uva, ci rinunziò perché aspra. La logica della rassegnazione e delle rinuncia lo animava, facendo dire al Tommaseo che tale inedia lo avrebbe fatto dimenticare troppo presto. Ma il seme da Lui gettato è diventato foresta nel ‘900: passando per il giogo del suo omologo Schopenhauer, Nietzsche e Freud, e perfino Camus, hanno trasferito ad oggi quel sentimento di infelicità e di ineluttabilità alla natura matrigna che ci assilla nella società postindustriale. A noi pare che Schiller, nel suo anelito libertario e titanico, che crede in un Dio non più assente, ma presente nel mondo, abbia però fornito uno strumento formidabile per superare le angosce di un destino che non può essere immutabile. Forse un po’ di ritorno al Manzoni della provvidenza e al Goethe che rispetta la Natura osservandone le regole, ci tornerebbe utile di fronte all’io infranto di Leopardi, materialisticamente convinto che il mondo è tragicamente statico, dove è vano sperare in un sviluppo migliore. Ma è proprio così?
Avv. Giuseppe Moscatt
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.