Carissimi soci e amici, dopo la pausa estiva – neppure tanto lunga, visto che abbiamo dovuto affrontare le variazioni classiche di Giovanni Ghiselli quasi al termine del ciclo delle rappresentazioni al teatro greco e, poi, in pieno agosto, la corrente artistica della Nuova Oggettività a margine di una personale di pittura del Maestro Gino Cilio, nostro valentissimo amico – riprendiamo il cammino autunnale. Primo appuntamento, una gradita riedizione del tema della crisi ambientale, vista da un ottica molto meno soft – come quando lo scorso inverno presentammo l’opera di Paolo Pantano Il prezzo della crescita – vale a dire la tragica lettura di un filosofo misconosciuto, Günther Sterrn, alias Anders, primo marito di Hannah Arendt, discepolo ma fiero avversario di Martin Heidegger. Doveva presentarlo la Sua massima traduttrice e divulgatrice in Italia, Micaela Latini, già nostra ospite nel 2013. Purtroppo, un improvviso problema di famiglia lo ha impedito e dunque Chi scrive ha dovuto farne le veci, come sa chiunque è chiamato a sostituire una prima donna, un calciatore, ecc. ecc. E quindi abbiamo discusso dell’infinito moderno, della onnipotenza negativa del Faust contemporaneo, dell’uomo senza mondo dopo la prima guerra mondiale e del mondo senza uomo dopo Hiroshima. Anders – filosofo dell’età della disperazione, in contrapposto al contemporaneo Bloch, quello del principio speranza – ci mette con le spalle al muro, dopo che la civiltà delle macchine attuale falsamente persegue la prosecuzione della specie, visto che una crisi ecologica causata proprio da quelle macchine potrebbe portarci ad essere noi gli ultimi uomini. La tecnica, cioè, ci è scappata di mano: siamo divenuti numeri insensibili di fronte alle guerre, alle crisi emergenti,soprattutto quando masse di uomini e donne si mettono in marcia verso un paradiso, ora ritrovato in Italia – pensiamo agli albanesi negli anni ’90 – ore nel nordeuropa, la nuova terra promesse per iracheni e siriani, mentre dalla Libia del dopo Gheddafi partono bastimenti carichi di poveretti, in condizioni e con rischi ben più alti dei nostri avi, quando dalle banchine di S. Lucia a Napoli alla fine del secolo scorso ci si avventurava per le Americhe. Ma Günther Anders è ancora più nero: il dislivello prometeico fra uomo e macchina ci fa tanto vergognare senza alcun timore per la specie. Non sappiamo più chi siamo, né perché produciamo, né che fine faremo. Aspettando Godot, di Beckett è la rappresentazione del nostro esistere, l’Apocalisse atomica è la prova del male generazionale che ci opprime; le biotecnologie ci manipolano; l’ambiente è arrivato al punto di non ritorno. E noi, novelli viaggiatori del Titanic, continuiamo a parlare di elezioni maggioritarie, di compravendita di voti, di abolizione delle province, di Senato delle Regioni … senza capire che la parcellizzazione del lavoro, la cieca collaborazione nel processo produttivo e il consumo sfrenato di merci senza logiche di preservazione delle risorse, è giunto allo stremo. Ma veramente è così? Se la realtà è questa, allora il male ci sta veramente divorando. Ma è un male tutto nostro, della nostra incapacità di riprendere in mano la situazione. La soluzione è però vicina, mica tanto difficile, ma molto più banale. Come scrisse Hannah Arendt, molto influenzata dal suo primo marito,il male assoluto irrimediabile non esiste; esso non è tanto profondo,quanto più è visibile, perché basterebbe pensare e riflettere con se stessi; riaprendoci a dialogare con il nostro io, cosi da riconquistare e superare ciò che ci è sfuggito. Eichmann e Claude Eatherly – il pilota che sganciò la bomba atomica di Hiroshima – appartengono alla stessa specie di uomini che non hanno pensato, ma hanno soltanto agito in nome della legge. Poi però Eatherly ha preso coscienza ed è però impazzito. Ma Anders lo confortò: un sano esame coscienza e un sincero pentimento, non solo non è follia, ma è la via per la salvezza. Un po’ d’anima, un po’ di paura, un po’ di umanità, sarebbero sufficienti per invertire la rotta. E Hannah Arendt – come ci mostra la ottima riduzione cinematografica di Margarethe von Trotta – lo comprese mettendosi in collisione con la cultura ebraica dell’epoca – gli anni ’60 del giovane stato d’Israele – rileggendo la grigia figura di Eichmann, un piccolo esecutore senza coscienza, una macchina come le altre macchine, fabbricato per uccidere 6 milioni di Ebrei. Ma a margine di tali interrogativi così gravi e che ancora fatichiamo a capire nei loro veri termini, noi siamo ancora lontani dalla loro risoluzione e non comprendiamo ancora le parole che Papa Francesco fino ad ora ci propone. Come possiamo superare nel Nostro particolare, un problema che ci assilla, vale a dire la difficoltà di trovare posteggio a Ortigia. Perché per andare al Museo del Papiro, al Museo del cinema, ci siamo affaticati così tanto? E perché siamo cosi preoccupati di fronte ad una alternativa così semplice? Come diceva Hegel, il contesto fa il problema. Discutere dei massimi sistemi, della fine del mondo e delle origini dell’olocausto, di fronte al miserrimo problema del posteggio, ci pare analogo alla fatica del matematico che non sa come fare quadrare il cerchio. Ma il problema resta e vi si deve porre rimedio, magari con un po’ di analisi della realtà urbanistica della città che non è fatta solo di Ortigia.
Avv. Giuseppe Moscatt
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