Carissimi soci e amici, questo mese è stato dedicato come potete vedere dal programma sul sito – che Vi invito sempre a verificare direttamente per suggerimenti e critiche – alla storia dell’arte, anzi all’interpretazione psicologica dell’opera d’arte. E il caffè letterario dell’8 u. s. ha avuto un protagonista d’eccezione Albrecht Dürer. Ce lo ha presentato egregiamente Lidia Pizzo, nostra new entry. Ebbene, Lidia è entrata subito in argomento con la storia della lettura psicologica di Melancolia I. Dove Dürer mostra una enorme maestria nell’incisione a bulino e ci ha rivelato i numerosi significati rappresentati dai vari soggetti dell’opera. In sintesi l’opera sta a proporre il cammino del genio lungo la vita, fra rassegnazione e speranza di una vita migliore. In fondo, l’uomo colto di ogni tempo che riflette e non dispera, ricerca e pensa, come dicevano i grandi amici di Dürer, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. Era il cammino del sapiente,come poi Goethe ebbe a rafforzare quando affermava che non si può arrivare subito a conoscere la bellezza e quasi a presagire la poesia di Platen, dove la conoscenza del bello è preludio di morte. Dürer ci mostra, allora il temperamento melanconico, la fragilità dell’intellettuale, la creatività dell’uomo come suo sfogo per le passioni, quasi quella tempesta del dubbio che arrovellava Mazzini e Leopardi, i campioni del romanticismo italiano. Soprattutto, Lidia ha posto in evidenza come nell’uomo sia sempre sempre presente quella dinamica dei contrari che albergano in ogni animo. Segno dei quali, per esempio, è la donna al centro del dipinto, che pur sedendo per terra, pensa per elevarsi; oppure la borsa posta ai suoi piedi che è vuota ma potrebbe diventare piena.. E che dire della ruota della macina, simbolo della fortuna umana, del martirio dell’artista, esposto al destino fatale? Ma la logica del destino infame apre ad un ulteriore passaggio, la coscienza dell’Io e dell’Es, nella consapevolezza del suo venire fuori dall’anima. Come dire, da Schopenhauer a Nietzsche e poi a Freud, dal tormento romantico alla decadenza dal sé, il passaggio al ‘900 che apre all’arte contemporanea. E qui, assume rilievo la interessantissima relazione di Stefano Ferrari. Ringraziando ancora una volta l’Ordine dei Medici di Siracusa che ci ha ospitato – e le altre Associazioni presenti nella serata del 17 u.s. – va detto che Stefano Ferrari, nel presentare il bel volume di Lidia Pizzo, ci ha descritto una galleria di quadri che rappresenta lo specchio del nostro Io, lungo l’intero arco della nostra vita. A margine del sito, potrete leggere una breve sintesi del Suo intervento. Non sono mancati i riferimenti alla pittura barocca e manierista del ‘600, sensibile alle esigenze soggettive scatenate dalla Riforma Protestante e poi riprese dalla Controriforma Cattolica. E i pensatori ne hanno data testimonianza: Ferrari – psicologo dell’arte, ma anche critico di formazione estetica – è passato dall’impressionismo all’espressionismo novecentesco, come Gauguin, van Gogh,. Picasso, Klee, senza contare Agostino, Rousseau, Wagner, Puccini, Pirandello, Joyce, Kafka, e chi più ne ha più ne metta… Le scoperte dell’inconscio e l’autoritratto con segni dell’io emergenti è il Leitmotiv della Sua entusiasmante conversazione, dove la psicologia del profondo, con l’amato Freud come mentore, è stata compiutamente sviscerata. La lettura delle opere d’arte – ma anche del cinema, del teatro e della musica – ha talmente catalizzato i presenti, che la tradizionale disattenzione che affligge gli uditori dopo la prima mezz’ora, non si è proprio percepita, durando l’esposizione del nostro amico Stefano più dell’ora abituale. Se poi cogliamo tutte le conseguenze culturali della nozione di pertubante introdotto dal Freud per spiegare il senso di angoscia che ci prende di fronte ad un’opera d’arte – la sindrome di Stendhal – allora la visione di certi film che ci scuotono nell’intimo appare più coerente col nostro I, frantumato e dissolto dalle tensioni reali che ci aggrediscono. Bergman, Fellini, Hitchcock, Kurosawa, lo compresero così bene, che i loro attuali epigoni non fanno che mostrarci quel senso di spaesamento e di paura dell’altro, soprattutto se è un familiare, che ci affligge nel quotidiano (é per esempio, il terrore del coniuge che da assoluto protagonista della recentissima pièce L’amore bugiardo…). Di questa singolare interpretazione, Stefano Ferrari si è fatto massimo divulgatore e splendido esegeta. Non è un caso l’esempio della paura che ci sconvolge a guardare Guernica di Picasso, opera che indusse gli ideologi totalitari di ogni colore a eliminare la c.d. arte degenerata e a favorire le classiche scene collettive fondate sul lavoro, sulla famiglia e sulla Patria. Altri, invece, compresero che la reazione integralista era un fenomeno passeggero e sperando in lucrose vendite, nascosero e accumularono opere d’arte per riportarle alle luce in tempi migliori. E per il loro recupero, oppure per la loro messa in sicurezza, si mobilitarono le nazioni democratiche durante la Seconda Guerra Mondiale. I Monuments men furono quelle squadre di critici e di tecnici che salvarono le opere d’arte in pericolo di distruzione durante le operazioni di guerra, oppure rubate dai gerarchi nazisti. Nel relativo film di George Clooney del 2014 – non troppo magnificato dalla critica sul presupposto per noi superficiale che il regista avrebbe troppo indugiato sui profili estetici – il caposquadra Robert Edsel, autore dello splendido volume degli anni ’70 che raccontò la loro impresa, affermava: si può sterminare un’intera generazione… si possono bruciare le loro case… e le vittime troveranno una via per risorgere. Ma se si distrugge la loro cultura è come se non fossero mai esistiti. E’ questo che vuole il Nazismo ed è esattamente questo che noi combattiamo. Un significativo messaggio anche alla luce dello scempio di opere d’arte recentissimamente avvenuto in Siria ed in Iraq ad opera degli estremisti dell’ISIS. Ma la domanda che aleggiava al termine della missione era se era valsa la pena di morire per difendere le testimonianze della civiltà di fronte all’operazione Nerone, dove la follia nazista voleva che venissero bruciate moltissime opere d’arte foriere di degenerazione culturale …..E tale domanda oggi ancora ci fa riflettere.
Avv. Giuseppe Moscatt
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