Sintesi conferenza Prof. Stefano Ferrari

Stefano Ferrari – Alma Mater – Università di Bologna

Siracusa, 17 aprile 2015 – Presentazione del volume di Lidia Pizzo, Sette anni di riflessioni sull’arte e dintorni – Traccia dell’intervento

Assumerò il libro di Lidia Pizzo, che affronta tantissime importanti problematiche storico-artistiche e considera talvolta anche aspetti di carattere psicologico, soprattutto come occasione per presentare e discutere alcune questioni, sia teoriche che metodologiche, che riguardano le relazioni tra arte e psicoanalisi. D’altra parte, insegno Psicologia dell’arte all’Università di Bologna e sono presidente di un’associazione, l’International Association for Art and Psychology, fondata nel 2000 da Graziella Magherini (la psichiatra e psicoanalista che ha teorizzato la “Sindrome di Stendhal”) che ha al centro del suo statuto proprio lo studio delle relazioni tra arte e psicologia. Partirò riallacciandomi al primo saggio che inaugura il volume di Lidia Pizzo (una posizione che rende il testo in qualche misura “programmatico” e che costituisce una cifra del suo approccio): “Il valore della stupidità. Guardare con stupor per vedere il mondo”: infatti questo bisogno di “straniamento”, per usare un termine caro ai formalisti russi, non è essenziale solo per l’artista, che per definizione è colui che è in grado di farci vedere il mondo da un diverso punto di vista (si pensi anche alla “poetica del fanciullino” di Pascoli) ma – credo – lo dovrebbe essere anche per il critico o il teorico dell’arte, per potere andare oltre certi luoghi consolidati, certe acquisizioni ormai date per scontate e che spesso tendono ad auto-affermarsi. Mi sono reso conto che spesso la psicoanalisi (ma probabilmente questo vale anche per altre prospettive, diciamo, “non pertinenti”, non appartenenti in modo diretto alla consorteria dei critici e degli storici dell’arte di professione) consente di porre alcune questioni in termini apparentemente “ingenui”, costringendoci ad entrare in modo provocatorio nel cuore di certi problemi. Ho avuto anche l’impressione che lo stesso Freud utilizzasse questa prospettiva con una certa, mi si passi il termine, sornioneria, avendo sotto sotto anche il gusto della provocazione tipica del “dilettante”. Fatto sta che la psicoanalisi ci consente spesso di affrontare problemi fondamentalissimi dell’arte, che senza la “copertura”, lo schermo di questo “pretesto”, non avremmo forse il coraggio di affrontare: da dove nasce l’arte, che cosa è il piacere estetico, che cosa è la bellezza? Ecc. Un altro testo di Lidia Pizzo che si riferisce in modo esplicito a una tematica psicoanalitica è quello dedicato al “Perturbante nella vita e nell’arte”. Il concetto di perturbante è un concetto eminentemente freudiano e risale al saggio del 1919 Das Unheimliche, che costituisce altresì uno dei “Saggi sull’arte” di Freud più originali e meno “datati”, un testo che continua ad avere una grande attualità. Già distinguere tra il perturbante nella realtà della vita e quello esperito nell’arte è una questione che Freud pone in modo esemplare e che costituisce un suo preciso contributo, direi, di poetica… Avremo così la possibilità di parlare del perturbante nell’arte senza necessariamente soffermarci su tematiche esplicitamente unheimlich, tipiche di certi motivi o generi artistici. Potremo infatti riferirci a una concezione più ampia di questo concetto, che in qualche misura finisce per connotare sia l’arte in sé, nella sua “onnipotenza”, sia la fruizione estetica, per quanto vi è in essa di straniante, secondo la dialettica, appunto, tra heimliche e unheimliche, che il termine tedesco contiene ed esprime molto bene. A volte – o possiamo anche dire spesso – sono caratterizzati dalla dimensione del perturbante sia il ritratto che l’autoritratto – due argomenti che ancora una volta rientrano tra quelli trattati dalla nostra autrice, e a cui ho dedicato buona parte degli studi di questi ultimi anni. A volte possiamo avere l’impressione che la psicoanalisi abbia una sorta di vocazione privilegiata per la letteratura e che abbia invece da dirci qualcosa in meno sull’arte visiva – forse a causa di quella verbalità e testualità che caratterizza fin dalle origini il suo statuto. Ma proprio le dinamiche del ritratto e dell’autoritratto sono in grado di smentire, o quanto meno, di attenuare, questo pregiudizio. Infatti lo studio sulla psicologia del ritratto e dell’autoritratto ha molto da imparare dalla psicoanalisi, soprattutto in relazione ai meccanismi identificatori che qualificano sia la loro produzione che la loro fruizione. L’autoritratto, in particolare, ha poi a che fare con il motivo dell’identità – della sua costruzione e soprattutto della sua rappresentazione – ed è questo un argomento su cui la psicologia e la psicoanalisi hanno davvero molto da dirci. Un altro tema cruciale per chi si occupa di psicologia dell’arte – ma non solo – è quello antico che riguarda il rapporto tra arte e follia. Lidia Pizzo si riferisce giustamente soprattutto a quella “follia, bella e creativa” che caratterizza l’opera d’arte, e che con essa ha in comune quella capacità di darci una visione altra del mondo e delle cose di cui si è parlato all’inizio. Anche Lidia cita il caso di Van Gogh e lo considera giustamente come un esempio di (relativo) equilibrio tra gli estremi di una sensibilità esacerbata e la capacità artistica di dare ad essa comunque unìefficace rappresentazione. Dunque, dove c’è follia non ci può essere arte e dove c’è arte non ci può essere follia (è un po’ quello che finisce per dire Jaspers proprio a proposito di Van Gogh)? Molto suggestivo ma troppo semplice: le cose sono sempre un po’ più complicate di quanto vorrebbe la nostra voglia di far quadrare le cose… Un altro argomento che si riallaccia a quello precedente, che attraversa molti dei saggi di Lidia Pizzo e che costituisce un polo di riflessione ineliminabile per chi si occupa di arte e psicologia è quello del rapporto tra arte e vita: dai rischi del metodo psicobiografico della vecchia tradizione psicoanalitica alla impossibilità di eludere un nodo che riguarda il farsi stesso dell’opera, la sua sostanza. E che riguarda anche le emozioni del fruitore stesso che, sotto un profilo psicologico, non può prescindere dal proiettare nell’opera che vede parti di sé e del suo vissuto. L’opera vive anche attraverso la vita di chi l’osserva…

   Invia l'articolo in formato PDF