Goethe in Sicilia.
Per cominciare, mi rimetto subito a ciò che Goethe scrisse a Taormina il 7 maggio 1787, quasi alla fine del suo viaggio in Sicilia:” Per buona sorte tutto ciò che abbiamo visto oggi è già stato abbondantemente descritto da altri”. La stessa cosa intendo fare io, per cui non parlerò di tutto ciò che Goethe scrisse sulla Sicilia, tanto meno parlerò di ciò che è stato ampiamente descritto da altri studiosi e mi limiterò solo a soffermarmi su alcuni temi, che anche se già studiati, risultano a me di particolare interesse. Il primo di questi temi è il monastero di San Martino delle Scale, dove Goethe si recò nel corso di una gita a Monreale il l0 aprile 1787. Ma invece di visitare il duomo della cittadina siciliana, famoso per i suoi splendidi mosaici medioevali, ammirò la “magnifica strada, fatta costruire dall’abate di quel convento in tempi di grande opulenza:larga, in dolce pendìo, fiancheggiata qua e là da alberi e soprattutto da abbondanti fontane a zampillo e a canna, ornate di fronzoli e fregi di gusto quasi palagoniano, ma atte non dimeno a dissetare uomini e bestie”, precisando l’ubicazione del monastero benedettino di San Martino, senza tralasciare che i monaci gli fecero “visitare le loro collezioni, che comprendono non poche bellezze in fatto d’antichità e di storia naturale”. In effetti proprio alla data dello stesso l0 aprile, nella lista dei suoi conti, ancora conservata nel suo archivio di Weimar, compare la registrazione della spesa di 5 onze e 40 tarì per “Muli San Martino”, quindi una “Mancia” di 60 tarì ( evidentemente versata al mulattiere che li aveva condotti nel monastero) ed infine la somma di 3 onze per “St. Martino al converso”, dove “converso” sta per convento (onze e tarì erano le monete allora in corso in Sicilia). Si deve avvertire una volta per tutte che il poeta scrisse queste liste di conti, a partire da Malcesine, al confine tra la Repubblica di Venezia e l’impero, in italiano, lingua che conosceva bene, sebbene non osasse scriverla, ma per i conti faceva un’eccezione, anche se talvolta per la fretta incorreva in qualche solecismo. Goethe continuò a riferire della sua visita al monastero, aggiungendo che i monaci fra i tanti altri oggetti antichi, gli fecero vedere una medaglia con la figura di una dea che lo affascinò. Quindi gli offersero un pranzo eccellente. Egli accennò all’abate e al decano del monastero, ma senza indicarne i nomi. Dalle ricerche di Giuseppe Pitrè, il famoso storico e antropologo palermitano dell’Ottocento, si apprende che l’abate era don Filippo Benedetto de Cordova, che ricoprì questa carica nel 1772-76 e poi ancora nel 1785-88, quando fu anche supremo moderatore dell’ordine dei benedettini cassinesi, e il decano don Gioacchino Monroy. Il monastero di San Martino era uno dei più ricchi di tutta la Sicilia e accoglieva i giovani cadetti delle famiglie aristocratiche dell’isola. Dato che potevano contare su entrate assai considerevoli, dovute agli enormi possedimenti fondiari sparsi in tutta l’isola, i monaci si potevano permettere un tenore di vita altissimo, cosa di cui Goethe si rese contosubito, data la sontuosa accoglienza che ricevette. Dello stile di vita che vigeva nel monastero si rese ben conto un altro viaggiatore tedesco che lo aveva visitato poco prima, nel 1786: il futuro borgomastro di Amburgo, Johann Heinrich Bartels,che fu ospitato nel monastero, con lo stesso lusso del quale poté godere anche Goethe, ma entrò anche in confidenza con qualcuno dei tanti monaci che lo abitavano, per via dei comuni legami massonici, e da lui ebbe divertenti confessioni che nessun monaco osò confidare a Goethe. Tanto per cominciare, Bartels fu introdotto in una sala, dove trovò parecchi monaci, rivestiti dalla loro consueta tonaca nera, che giocavano a bigliardo. Il monaco, con il quale era entrato in confìdenza, gli disse che di regola consumavano a ore fisse i loro sontuosi pasti, che venivano serviti da servitori laici, e che dopo i pasti si mettevano d’accordo per ricominciare la sera le loro partite di bigliardo. Se poi qualcuno di loro veniva colpito da un umore ipocondriaco, bastava che scendesse nelle stalle del monastero per trovare un cavallo bello che sellato, poter scorazzare liberamente e trovare compagnia nel vicinato. Questo stesso monaco gli dichiarò:( cito testualmente dal resoconto di Bartels) ” illuminismo è una parola con la quale qui giocano come con le loro palle da bigliardo, senza pensare a qualcosa di preciso o collegarlo a concetti completamente errati”. Quindi ammise di essere massone, come tanti altri dei suoi confratelli. Tutti quanti loro non si preoccupavano per niente del loro voto di castità e il monaco che gli era diventato amico gli sussurrò all’orecchio: “il mio modo di pensare è: ogni volta che esco, lascio il mio voto di castità a casa, fuori dal monastero mi sarebbe di peso”. Per dargliene una prova lo condusse nella sua stanza e gli mostrò un bel mucchio di stampe lascive, fra le quali quella famosa dal titolo di Cappuccino con un fàscio di paglia nel quale s’intravede una ragazza nascosta, con il motto: provviste per il monastero. Bartels ne concluse che effettivamente nel monastero di San Martino delle Scale regnasse la massima tolleranza e che non rifiutavano di ospitare qualsiasi straniero anche se fosse stato protestante. Infatti lo ospitarono per tre giorni e tre notti, assicurandogli di non avere il permesso di ospitare solo persone di sesso femminile e gli raccontarono che una volta, tanti anni fa, vi penetrò furtivamente una signora inglese, travestita da uomo, con loro grande scandalo, tanto che furono costretti ad inasprire la loro regola. Tutto questo l’allibito Bartels si sentì dire in quel monastero. Il secondo tema è ovviamente Omero: Goethe scrisse, alla data di Palermo 7 aprile 1787, che tutto ciò che aveva visto in Sicilia fino ad ora richiamò alla sua memoria” l’isola beata dei Feaci” e in conseguenza corse a comprare una copia di Omero per leggere subito il canto sui Feaci e improvvisarne la traduzione a Kniep, il pittore che lo accompagnò in Sicilia per disegnarvi i paesaggi e i monumenti per Goethe più interessanti. In effetti nella lista dei suoi conti siciliani compare, alla data del 15 aprile, l’annotazione: “Homeri Opera 1:80”, cioè un’ Onza e 80 tarì. L’edizione di Omero che egli acquistò a Palermo si conserva ancora nella sua biblioteca privata a Weimar ed è stato quindi possibile identificarla con un’ edizione bilingue ( greca e latina) : Homeri opera …omnia Graece et latine, curante ..Stephano Berglero .., Patavii 1772, 2 volumi, I, Iliade, II, Odissea. Per Goethe l’ Odissea non era certo una novità, egli l’aveva letta più volte nella traduzione di Johann Heinrich Voss pubblicata nel 1781, la conosceva quindi benissimo e si recò in Sicilia, rompendo lo schema paterno del viaggio italiano che si concludeva a Napoli, perché sapeva che nella Sicilia avrebbe trovato la piena realizzazione di quel mondo mitico di Omero da lui sempre sognato. Per tutto il corso del suo viaggio, già nell’appennino tosco-emiliano e poi di nuovo a Foligno, il desiderio di raggiungere l’isola dei suoi sogni omerici l’aveva inseguito. Per questa ragione appena sbarcato a Palermo sentì il bisogno di acquistare una copia dei poemi omerici per verificare i suoi sogni nello specchio della realtà: dietro ad Omero sentiva la presenza della Grecia arcaica che sperava di trovare in Sicilia. Fu nel giardino pubblico di Palermo che i suoi sogni cominciarono a diventare realtà, allora infatti egli ricominciò a pensare ai suoi vecchi progetti letterari e mise le prime pietre per quello che sarà il dramma abortito Nausica. Contemporaneamente a questo progetto drammatico, Goethe si provò in un Tentativo di spiegazione di un passo omerico oscuro, ma fu allora che emerse l’impossibilità di vivificare Omero nella realtà storica della Sicilia che non era più quella arcaica sognata da lui. E in conseguenza lo iato trala Sicilia del presente e quella del suo lontanissimo passato preistorico condusse al fallimento del suo dramma Nausica. In compenso, come è stato notato da uno dei maggiori studiosi di Goethe: “Solo così la Sicilia poté divenire per il cammino interiore di Goethe la chiave di tutto. Il lucente paradiso rimasto nell’animo, contemplazione arcadica e insieme ideale estetico, fu il guadagno imperituro di quelle settimane”. Prima di lasciare Palermo, il poeta fu invitato a pranzo dal viceré, Francesco d’Aquino principe di Caramanico, all’ingresso della sua residenza trovò un nobiluomo che si rivelò dall’abito come un cavaliere di Malta. Costui, appena seppe di trovarsi davanti ad un tedesco, gli chiese se poteva dargli notizie della città di Erfurt dove egli aveva soggiornato per qualche tempo. Goethe gli rispose, dandogli tutte le informazioni che poteva, al che il cavaliere di Malta “s’informò con scrupoloso interesse intorno a Weimar:’che cosa sa dirmi’ disse ‘di quel giovane tanto dotato, che là allora faceva la pioggia e il bel tempo? Ne ho dimenticato il nome, ma le basti sapere ch’è l’autore del Werther”, cioè Goethe stesso. Il fatto che a Palermo qualcuno sapesse del Werther, non deve sorprendere, questa prima opera del giovane Goethe ebbe un successo europeo strepitoso e anche in Italia ne furono eseguite varie traduzioni che ebbero vastissima diffusione. Da Palermo il 18 aprile il poeta scrisse un biglietto a Fritz von Stein, il figlio della baronessa Charlotte, che egli per una decina d’anni aveva finto di amare,:”Domani caro Fritz, lasceremo Palermo. lo sto bene: forse nella mia vita 11011 S0110 mai stato così sereno e allegro per sedici giorni di seguito come qui. Adesso, passando per Alcamo, ci dirigeremo verso Segesta, Castelvetrano e Girgenti, dove pensiamo di arrivare in cinque giorni. Faccio il viaggio attraverso l’interno per vedere le montagne, di coste potrò vederne abbastanza più tardi. Presto la meta del mio viaggio sarà raggiunta, e inizierà il ritorno. Ho veduto molte cose nuove, soltanto qui si apprende a conoscere l’Italia. Vorrei che tu avessi visto i fiori, gli alberi, che avessi condiviso il nostro stupore quando, dopo una difficile traversata, sulla riva del mare trovammo i giardini di Alcinoo. Addio.”. Non era stato solo il padre di Goethe, Johann Caspar Goethe, a concludere il suo viaggio in Italia con una lunga tappa napoletana. Era stata questa una moda, assai diffusa nella Germania del Settecento, che venne interrotta solo dopo che Winckelmann, pur senza esserci mai stato, pubblicò nel 1759 un saggio sugli antichi templi greci di Girgenti. Da allora il viaggio in Sicilia si presentò come un surrogato di quello in Grecia e si aprì la lunga schiera di viaggiatori tedeschi che si spinsero fino alla Sicilia. Fra di loro, quello che esercitò la maggiore influenza su Goethe, fu Johann Hermann Riedesel, che nella primavera del 1767 visitò la Sicilia, proseguendo poi per la Grecia e l’Asia minore. Egli espose i risultati di questo viaggio in due volumetti pubblicati nel 1771. Goethe ricordò esplicitamente Riedesel nel corso del suo soggiorno a Girgenti, quando alla data del 26 aprile 1787 riferì nel suo Viaggio che portava con sé il testo del viaggio siciliano di Riedesel come una guida preziosa, una sorta di talismano che gli apriva tutte le porte dell’ arte antica, con l’autorevole patronato del suo maestro, il primo e maggiore antiquario dell’ Europa, Johann Joachim Winckelmann, autore della celebre Storia del!’ arte nel!’ antichità. Con questo Badecker in mano, egli visitò le antichità della città siciliana, ma non fu attratto tanto dai numerosi templi, pur già famosi, quanto dai rilievi scultorei. Lo interessò moltissimo infatti il sarcofago di Fedra che Winckelmann aveva studiato, confutando la tesi dell’ antiquario siciliano Giuseppe Maria Pancrazi, che aveva visto nei rilievi del sarcofago agrigentino la storia dell’ultimo re di Agrigento, Finzia, mentre invece si trattava della rappresentazione figurata del mito di Fedra e Ippolito. Nello stesso duomo di Girgenti Goethe ammirò il cratere a figure rosse di stile corinzio già vantato da Riedesel come uno dei più belli che avesse mai visto. Ma il poeta non si limitò ad attenersi alle istruzioni di Riedesel sui monumenti antichi da visitare, ne seguì anche le precise indicazioni sugli itinerari da seguire in Sicilia, tanto da escludere di visitare Selinunte e addirittura Siracusa, che era proprio troppo. Egli scriverà infatti nel suo Viaggio in Italia, dal quale io cito:”seguimmo il suggerimento rinunciando a Siracusa, anche perché non ignoravamo che della stupenda città rimaneva poco più del nome glorioso, e che comunque avremmo potuto visitarla facilmente con una gita da Catania”. Cosa che poi invece non fece. Riedesel infatti aveva scritto che nell’una né l’altra meritavano una visita. In effetti tutti i pregevolissimi monumenti antichi non erano stati ancora scavati, lo saranno nei decenni successivi e fìno a tempi a noi molto vicini. Non si deve però credere che Goethe vedesse le antichità greche con gli stessi occhi di Riesedel. E’ stato osservato da un altro eminente studioso di Goethe, che ” mentre Riedesel si accostava agli edifici greci considerandoli con lo sguardo sobrio dell’archeologo, Goethe era alla ricerca di un’antichità greca intesa come presenza vivente e palpabile, attivamente ed armonicamente operante nella vita reale”. Il poeta tuttavia non si contentò della sola guida scritta di Riesedel e ricorse anche all’aiuto di un antiquario locale, Michele Vella, che lo guidò prima nella visita della città, poi in quella dei templi ed infine lo portò nella cattedrale, dove poterono ammirare sia il sarcofago che il vaso corinzio. Quello di Vella è uno dei pochissimi nomi fatti da Goethe nella parie del suo Viaggio in Italia, dedicata alla Sicilia. Tanto gli fu grato da nominarlo con nome e cognome, mentre di altri personaggi con i quali aveva avuto a che fare, a cominciare dalla massima autorità dell’isola, il vicerè principe di Caramanico, che pur l’aveva invitato a pranzo, non fece mai il nome. VelIa era un prete, che, all’occorrenza, faceva tesoro della sua esperienza di antiquario, per vendere agli stranieri qualche oggetto antico, sul quale gli era riuscito di mettere le mani. Sulla strada per Catania, Goethe e Kniep si fermarono a Caltanissetta, dove si procurarono il necessario per la cena. Per strada avevano comprato una gallina e il mulattiere cercò un pò di riso e i condimenti per cucinarli. l due tedeschi 110nsapendo dove cucinare, incontrarono un vecchietto del luogo, che permise loro di farlo in casa sua, per un modico compenso. Nella lista delle spese fatte in Sicilia vennero registrate infatti le somme di l0 onze per la cucina ( compenso, che poi tanto modico non era), 9 per la gallina, 2 per il vino, 2 per il riso, 8 tarì per il pane e 3 tarì per lo zafferano. Dopo cena si accorsero che i villici si radunavano in piazza per fare le solite quattro chiacchere serali. Il discorso con i forestieri cadde su Federico II e ” li sentimmo così vivamente interessati a quel gran sovrano che tacemmo loro della sua morte, non volendo renderci invisi agli ospiti con quell’ infausta notizia”. E’ stato già rilevato, dallo storico tedesco Olaf Rader, in una monografia sull’imperatore Federico II di Hohestaufen, che questa volta Goethe avesse preso una cantonata, perché difficilmente gli abitanti di una sperduta cittadina siciliana, quale era Caltanissetta, potevano sapere dell’esistenza del re di Prussia Federico II. E’ sicuro invece che alludessero al leggendario imperatore Federico II, che fu anche re di Sicilia e in Sicilia sempre fu ricordato. Dopo una lunga e faticosa traversata all’ interno della Sicilia per sentieri tortuosi a dorso di mulo, i due viaggiatori si avvicinarono a Catania, ma poco prima di arrivarci, Goethe notò:” Qui si vede come la natura ami la varietà delle tinte: si sbizzarisce sul grigio-blu nerastro della lava, ricoprendolo di muschio color giallo vivo, cui si sovrappose il rosso … e altri bei fiori violetti. Le piantagioni di fichidindia e i vigneti testimoniano culture accurate. Le colate laviche si fanno via via più imponenti”. Il solito mulattiere, che di questi viaggi ne aveva fatti tanti, propose di fermarsi in una locanda, non troppo lontana dalla città, che a lui risultava abbastanza confortevole. Stanchi ed affamati, vi si accomodarono e vi poterono cenare. Nel corso della serata, l’attenzione di Goethe fu attratta da una scritta, ” tracciata a lapis sulla parete in eleganti caratteri inglesi, che così diceva: ‘Viaggiatori, chiunque voi siate, guardatevi a Catania dalla locanda del Leon d’Oro; è peggio che cadere nelle grinfie riunite dei Ciclopi, delle Sirene e di Scilla!’. Pur sospettando una certa enfasi mitologica da parte del ben intenzionato ammonitore, ci proponemmo fermamente d’evitare quel Leon d’Oro, che ci veniva dipinto come una belva tanto feroce”. Sebbene il poeta si fosse ripromesso di non cadere nelle grinfie dei mostri omerici, che lo minacciavano nella locanda del Leon d’Oro, finì invece per alloggiare proprio in quella locanda, dove fu trattato bene, sebbene non mancasse una Sirena che fece tutto il possibile per abbindolarlo, come aveva previsto il viaggiatore inglese. La figura mitica di questa donna sembrava minacciare il novello Ulisse, l’eroe omerico. Nella locanda del Leon d’Oro, Goethe si preoccupò di far pervenire ad un abate al servizio del principe di Biscari un biglietto con la preghiera di venirlo a trovare per poterne ammirare la famosa collezione. Ignazio Paternò Castello principe di Biscari ( 1742-1823) era uno dei maggiori antiquari e collezionisti della Sicilia del Settecento, che aveva ereditato dal padre dello stesso nome, V principe di Biscari ( 1719-1786) la collezione e un importante museo. Sempre il padre, nel corso di tanti anni, aveva fatto importanti scavi nella sua stessa città oltre che in varie altre località limitrofe (Centuripe, Camarina ecc.), era stato massone e aveva scritto varie dissertazioni erudite. Non era stato un antiquario molto competente, ma essendo dotato di mezzi economici adeguati, aveva potuto finanziare alcuni scavi di notevole rilevanza, soprattutto quelli relativi all’anfiteatro romano di Catania. In tal modo aveva riportato in luce antiche costruzioni catanesi greche e romane (teatro, anfìteatro, basiliche, fori, terme), oltre a numerosi marmi ( fregi, urne, colonne, architravi, busti,statue, bronzi, iscrizioni, lucerne, vasi, monete e pietre incise) che raccolse nella collezione, ordinata nelle vaste sale del suo palazzo alla marina. Alla data del 3 maggio, l’abate al quale Goethe aveva inviato il suo biglietto, li venne a prendere nella locanda per portarli nel palazzo del principe. Introdotti nelle sale dove era esposta la collezione, il poeta vi poté ammirare i numerosi pezzi e apprezzò in particolare una statua mutila di Giove. Quindi passarono nel gabinetto del principe stesso, che amabilmente mostrò loro la sua collezione di monete, intavolando una dotta discussione con i due visitatori, nel corso della quale Goethe fece sfoggio della sua erudizione, basata sugli studi di Winckelmann. Il poeta scrisse che il principe “acconsentì a mostrarmi la sua collezione di monete: era un segno di particolare riguardo, giacché più volte, in passato, tali esibizioni erano costate sia a suo padre che a lui la perdita di parecchi esemplari, e ciò aveva alquanto temperato la sua abituale liberalità”. Il principe infine li presentò alla madre, che con grande cortesia mostrò loro una preziosa raccolta di ambre colorate. La principessa, quando seppe che i due visitatori erano tedeschi, chiese loro notizie degli altri viaggiatori tedeschi che aveva conosciuto in passato e fece i nomi di Riedesel, Bartels e Friedrich Miinter. Nella lista delle spese si trovano registrate due piccole somme in riferimento alla visita al principe di Biscari, entrambe sono di una onza, e compaiono la prima sotto il nome di “Biscari” e la seconda sotto quello di un “servitore del principe”, forse la prima somma doveva riferirsi al portiere del palazzo. In seguito l’abate li portò nel monastero dei benedettini, e “alla cella di un monaco il cui aspetto malinconico e chiuso, malgrado l’età non avanzata, prometteva una conversazione poco brillante; ma era lui solo che sapeva maneggiare con maestria il colossale organo della chiesa. Indovinando il nostro desiderio più che ascoltandolo, egli lo soddisfece in silenzio; ci recammo nella vastissima chiesa e udimmo come dal suo magnifico strumento sapesse trarre sonorità finissime o poderosi clangori, riempiendo a volta a volta di sussurri e di rimbombi anche gli angoli più remoti”. L’abate dunque li presentò all’organista, il solo capace di suonare il grande organo di Donato del Piano, che non si fece troppo pregare e suonò loro per un bel pò. Nello stesso foglio della solita lista delle spese Goethe registrò la somma di 40 tarì sotto il nome di “Benedettini”. I monaci del monastero catanese di San Nicolò non dovevano essere tanto diversi da quelli del monastero di San Martino delle Scale. Lo attesta il poeta Domenico Tempio, vissuto anche lui in quegli almi, in un’ ode dialogata in dialetto catanese, Il padre Sieda (Siccia vuol dire seppia ed ha una trasparente allusione omosessuale), dove un monaco benedettino seduce un ragazzetto. Dopo l’ascolto dell’organo del monastero dei benedettini catanesi, l’abate li condusse in carrozza per una visita dei quartieri più lontani della città, la attraversarono in lungo e in largo, fìnché non s’inerpicarono in una salita dove era ancora visibile la lava dell’eruzione dell’Etna del 1669, che si era stata abbattuta con estrema violenza sulla città, radendo la quasi al suolo. Goethe osservò:”Del torrente di fuoco pietrificato ci si valse come d’una roccia qualsiasi: le strade vennero tracciate e già in parte costruite direttamente su di esso. Staccai quello che mi parve un indubbio frammento di materiale fuso, ricordando che già prima della mia partenza dalla Germania era scoppiata la controversia intorno alla natura vulcanica dei basalti, e ripetei l’operazione in più punti, onde assicurarmi parecchie varietà di pietre”. E a questo punto bisogna ricordare che il poeta era anche un esperto mineralogo e dovunque andasse la prima cosa che lo interessava, dopo le antichità, erano le pietre di ogni sorta. Alla vista della lava, Goethe pensò subito al vulcano dal quale era fuoruscita e si ricordò che il vero motivo che l’aveva condotto a Catania era l’Etna, alla vetta del quale voleva salire. Già a Napoli aveva sentito parlare di un esperto vulcanologo catanese, il cavaliere Giuseppe Gioieni, che andò subito a trovare per visitare anzitutto il suo museo geologico. Con lui Goethe si consultò sulle possibilità di una scalata dell’Etna. Gioieni sconsigliò di salire sul cratere centrale del vulcano, perché in quella stagione era piuttosto pericoloso e suggerì invece di fermarsi su uno dei crateri laterali, quello dei Monti Rossi. Il poeta si attenne al suo consiglio e scalò l’Etna fino a quel cratere, dentro il quale rischiò di cadere a causa dell’imperversare di una bufera. A dispetto del cattivo tempo gli riuscì tuttavia di godersi lo spettacolo di una vista bellissima: l’occhio spaziava sulla costa che va da Messina a Siracusa ripercorrendo le curve e le insenature che la frastagliavano. Di ritorno dalla gita etnea, Goethe trovò nella locanda Kniep che lo aspettava, ma, con sua sorpresa, anche un cameriere che propose loro una gita nella vicina Jaci (oggi Acireale). Come riferì nel Viaggio, Goethe accettò con entusiasmo la proposta di una bella gita sul mare a Jaci, ripromettendosi di portare da mangiare e da bere. Puntualmente nella lista delle spese compaiono varie somme per “salame”, “zuccaro”, “gallina”, “vino”, il tutto per la gita a “Jaci”. Al momento di mettersi in moto Goethe però si pentì e rinunciò alla gita. Da Jaci e dintorni, ma sempre sulla costache portava a Messina, passarono ugualmente, come attesta un disegno di Kniep dedicato al villaggio di Aci Castello. Prima di lasciare Catania, la domenica 6 maggio, l’abate a noi già noto, che Goethe designò pomposamente, nel suo Viaggio, come” il nostro reverendo cicerone”, li accompagnò a visitare certe antichità greco-romane e mostrò loro alcuni ruderi di antiche terme, fra le quali si poteva ancora riconoscere con non poca difficoltà, per via dei tanti terremoti ed eruzioni vulcaniche, una Naumachia, cioè un edificio simile ad un anfìteatro, adibito a spettacoli di combattimenti navali. Nella lista delle spese Goethe registrò alla data del 6 maggio 40 tarì per “Naumachia” e alla data del 7 una onza e 80 tarì per “Cicerone”, evidentemente pagò la piccola somma al guardiano delle terme con la naumachia e la somma più alta all’ abate che ve li guidò. Dopo questa rapida visita alle ultime antichità di Catania, alla data dello stesso 7 maggio, si misero in cammino e raggiunsero Taormina, dove il poeta poté ammirare l’antico teatro greco-romano, ancora perfettamente conservato. Fu attratto anzitutto dal bellissimo panorama che dall’alto del teatro si poteva vedere spazi are sulla costa da Siracusa fino a Messina, nel Viaggio scrisse infatti che ” il quadro amplissimo è chiuso dal colossale vulcano fumante, che nella dolcezza del cielo appare più lontano e più mansueto e non incute terrore”. Lasciata Taormina, proseguirono, sempre a dorso di mulo, per Messina, dove giunsero il 10 maggio e trovarono la città terribilmente devastata dal terremoto che l’aveva colpita il 5 febbraio 1783. Il giorno dopo si separarono dal mulattiere che ve li aveva portati con la solita sostanziosa mancia ben meritata e cercarono una sistemazione per la notte, che, nella città rasa al suolo dal terremoto, apparve loro subito piuttosto difficile. Prima di separarsi dal mulattiere lo pregarono di cercare un servitore per provvedere ai loro bagagli. Infatti nella lista delle spese compare la somma di 80 tarì per “Facchini Messina” e quindi quella di 9 onze e 30 tarì per “Locanda”. La trovarono nell’unico luogo possibile, cioè fuori dalla città, in prossimità di essa, dove la vita dei poveri messinesi aveva ricominciato a pulsare. Una volta sistemati, Goethe si recò da un barbiere per farsi radere e da un parrucchiere per farsi acconciare i capelli, quindi acquistarono vino e pesce per mangiare. Tutte queste spese furono registrate nella solita lista, dove compaiono alla data dell’ 8 maggio 20 tarì per il vino e 28 per il pesce, 10 per il barbiere e una onza e 30 tarì per il parrucchiere. In seguito cominciarono a visitare quel poco che restava della città distrutta dal terremoto. Nel corso di questa visita, incontrarono un console, del quale il poeta non fa il nome e neanche di quale nazione fosse console, ma assicura che parlava assai bene il tedesco. Questo personaggio è stato bene identifìcato, era di sicuro Jean Gaspard de Chaperouge, un mercante ginevrino che si era sistemato a Messina e pare facesse il console onorario della repubblica olandese. Questo Chaperouge li accompagnò in giro per le macerie e ad un certo punto consigliò a Goethe di recarsi dal governatore della città. Neanche di lui il poeta fece il nome, ma si sa per certo che fosse Don Michele Odea, governatore di Messina, con l’incarico di vegliare sulla sua ricostruzione. Secondo Friedrich Munter era “un anziano e retto irlandese che è sia governatore militare che civile”, e governava assai bene, tanto che i messinesi erano molto contenti di lui. Odea era un militare, per la precisione maresciallo di campo, e nell’agosto del 1783 fu nominato al governo di Messina, dove restò fino a14 aprile 1788, quando fu richiamato a Napoli. Chaperouge descrisse a Goethe il governatore come un uomo lunatico e bizzarro con il quale occorreva misurare le parole e controllare attentamente i propri comportamenti. Goethe si attenne ai suoi buoni consigli, si recò da Odea e lo trovò nel suo uffìcio che sbraitava con un cavaliere di Malta, non meglio identificato. Il ritratto che il poeta ne schizzò, con brevi ma efficacissimi tratti, è assai spiritoso e vale la pena di riprodurlo:” Oltre al console e a me, c’era nella stanza un’ altra dozzina di persone che, formando un ampio semicerchio, assistevano a quel combattimento di belve e probabilmente ci invidiavano il posto accanto alla porta, dal quale era facile svignarsela se il frenetico vecchio avesse per caso alzato la gruccia e cominciato a menar botte”. La scenataccia comunque si concluse senza alcun danno per il cavaliere di Malta e subito dopo Odea si rivolse a Goethe, lo squadrò bene da capo a piedi ed infine gli ingiunse di venire a pranzo da lui per tutto il tempo che si fosse fermato a Messina. Dell’impegno preso con lui Goethe si dimenticò e mentre stava pranzando nella locanda, lo raggiunse un servitore di Chaperouge per ricordargli l’impegno assunto con il governatore, che lo stava facendo cercare per tutta la città per indurlo a rispettare l’impegno assunto con lui. Goethe si rammaricò moltissimo di aver dimenticato, “neIl’euforia del primo scampato pericolo, l’invito fattomi dal ciclope”. In conseguenza dopo essersi messo in ordine i capelli e i vestiti si affrettò verso Odea, “invocando la protezione di Odisseo e pregandolo che intercedesse per me presso Pallade Atena”. E’ stato opportunamente osservato che i riferimenti all’Odissea e all’eroe eponimo del poema di Omero, Odisseo, ritornino insistentemente nel viaggio in Sicilia, come se egli in qualche modo si fosse identificato proprio con Odisseo. Giunse quindi “nella tana del leone”, dove l’anfitrione aveva convitato una” quarantina di persone immerse in un sepolcrale silenzio”. Sedutosi alla destra del governatore iniziò con lui un’ amabile conversazione, durante la quale Goethe lo complimentò per la grande solerzia con la quale aveva provveduto a far sistemare le rovine della città distrutta dal terremoto, aggiungendo che i messinesi erano molto contenti del suo operato. La suggestione dell’Odissea ritorna alla mente di Goethe, quando dopo avere concluso il breve soggiorno messinese, s’imbarcò su di una nave francese per rientrare a Napoli. Nello stretto di Messina gli furono indicati i due famosi fenomeni omerici, il vortice delle acque che passa sotto il nome di Scilla e lo scoglio di Cariddi. Il richiamo ai mostri omerici ritorna ancora una volta nel corso della traversata, in prossimità dell’isola di Capri, quando la nave sulla quale il poeta viaggiava rischiò di naufragare. Lo riferì al duca di Weimar, Carl August, in una lettera da Napoli del 27 maggio 1787: “1′ impressione più indimenticabile ce l’hanno data gli scogli delle Sirene dietro Capri, contro i quali c’è mancato poco che c’infrangessimo nel modo più singolare e cioè col cielo completamente sereno e il mare in bonaccia e proprio per via di questa bonaccia”. Il 13 aprile, esattamente tredici giorni dopo il suo arrivo a Palermo da Napoli, Goethe scrisse una frase scultorea: “L’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto”. Cosa mai voleva dire con questa osservazione? Perché in Sicilia trovò la chiave che apriva tutte le porte dell’Italia? A me nativo di Catania, ma vissuto tutta la lunga vita a Roma, la frase di Goethe ricorda un proverbio siciliano, che ricorreva di frequente nella mia infanzia catanese. Il proverbio diceva: fatti un amico e dopo vai a dormire! Questa è la chiave, che vale oggi come mai, per tutta l’Italia e dato che in Italia ho pochissimi amici a dormire non ci posso andare: sono e resto insonne.