Carissimi soci ed amici, pubblichiamo di seguito l'ottimo articolo del prof. Marino Freschi, illustre germanista, che sarà nostro ospite nell'aprile 2014.
A quarant'anni dalla morte di Ingeborg Bachmann Un freddo. Come non mai, è penetrato tra le strade. Giunsero dal mare commandos volanti: il golfo con tutte le sue luci si è arreso. E' caduta la città. Sono innocente e prigioniera nella Napoli assoggettata. Di rado una poesia su Napoli è stata più radicalmente surreale di questa lirica di Ingeborg Bachmann, la scrittrice austriaca, morta, tragicamente a Roma, in via Giulia 66, esattamente 40 anni fa, in circostanze inquietanti. Per questa ricorrenza il nostro paese le ha dedicato nei giorni scorsi un convegno alla Casa di Goethe a Roma e una densa monografia La terra del morso. L'Italia ctonia di I.Bachmann di Camilla Miglio (Quodlibet, pagine 174,€22), ispirata da una intensa sensibilità per l'avventura meridionale della poetessa austriaca che è vissuta più di metà della sua vita tra Ischia, Napoli e Roma. In Germania l'anniversario è celebrato da una nuova, esauriente biografia di Andrea Stoll: Ingeborg Bachmann. L'oscuro splendore della libertà (I. B. Der dunkle Glanz der Freiheit, C. Bertelsmann, Monaco, pagine 384, € 23), arricchita da significative interviste con i parenti della scrittrice. Per avvicinarci a quella che viene universalmente considerata la maggiore poetessa dell'Austria contemporanea si deve partire da Klagenfurt, la piccola capitale della provincia alpina della Carinzia, dove, nata il 25 giugno 1926, la scrittrice rimase fino al conseguimento della maturità nel '44. Compie poi il salto nella grande città, a Vienna, con la scoperta della modernità più avanzata. A Klagenfurt Ingeborg era stata sconvolta dall'occupazione nazista nel '38, salutata con entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione (d'altronde ancora oggi la città è la roccaforte dell'estrema destra, come hanno confermato le recenti elezioni). A Vienna la poetessa s'interroga sul problema cruciale del potere e dell'angoscia, confrontandosi con Heidegger, discutendo una tesi su La ricezione critica della filosofia di Heidegger (pubblicata in Italia a cura di Eugenio Mazzarella da Guida), in cui si opponeva tenacemente all'ambiguità concettuale e politica heideggeriana, pur riconoscendone l'incidenza intellettuale. E quell'apertura a contrasto ha ravvivato e avviato la sua poesia, conferendo alla scrittura la capacità di penetrare nei meandri della chiacchiera quotidiana per trasmutarla in parola lirica. Il mondo vissuto con disperante angoscia si apre in un'illuminazione che recupera, con immediata semplicità, la dimensione aurorale della fiaba. Durante una vacanza meridionale un incontro casuale viene trasvalutato dalla memoria lirica: Ma mentre se ne andava, quando aveva già preso la mano di lui, si voltò indietro, perché le era venuta in mente la cosa più importante e la gridò al ragazzo che aveva visto la vittoria di Adorni: auguri! Questa facoltà, questo potere estetico di cogliere il piccolo gesto, di smarrirsi e ritrovarsi nell'episodio umile e minuto – per Andrea Stoll: nell'«oscuro splendore» -, svela la sua tipicità mitteleuropea, fa affiorare il suo rifiuto dei massimi sistemi ideologici in nome di una concretezza e di un'umanità, che, notata e amata, parla direttamente di sentimento nel racconto di verità, che Camilla Miglio chiama giustamente "ctonia". E l'Austria per Ingeborg coincide con quel senso di inarrestabile tramonto, già distintamente percepito dagli scrittori della «Grande Vienna» come Musil, Roth, Zweig e Canetti, quella di Wittgenstein (cui la poetessa dedicò un incisivo saggio) e di Freud, quell'apocalisse presagita da Karl Kraus e Hermann Broch. E quel crepuscolo per lei s'identifica con la fine stessa dell'esperienza di patria, senza alcuna illusione internazionalistica e di redenzione politica. Se l'annessione nazista dell'Austria aveva costituito un trauma irreversibile, la sotterranea sopravvivenza nel dopoguerra di strutture inquinate dalla mentalità nazionalsocialista e da un'animosità razzista nel paese liberato, provocarono un definitivo rifiuto dell'Austria da parte della scrittrice, che cominciò la sua vita nomade e inquieta, registrata da una scrittura fortemente evocativa, piuttosto che rievocativa, sempre segnata dal dolore che è l'ombra della sua tormentata esistenza. Gli stessi incontri sentimentali ed esistenziali con Max Frisch e soprattutto con Paul Celan approfondirono la sua sensibilità sulla soglia di un visionarismo apocalittico. Dopo soggiorni a Ischia e a Napoli (ospite di Hans Werner Henze a via Generale Parisi), nel 1965 si trasferisce a Roma. Il rapporto con l'Italia si consolida, si radica e si ramifica: di questa terra ama la gente semplice, i colori e i sapori del Mezzogiorno, che le sa ancora donare estremi istanti di rassicurazione, metafisicamente fissati nella memoria poetica, che si eleva in tali momenti a una classicità, densa di una intima verità figurale: Prenderò dunque il sale dal mare, quando ci soverchierà, e ritornerò indietro a deporlo sulla soglia. Ed entrerò nella casa. Come un antico rito mediterraneo Ingeborg celebra l'incontro con quello spazio spirituale che la sua scrittura di esule, di straniera, di donna senza patria e senza amore ci partecipa fino al limitare del silenzio. Silenzio che nella sua vita, intensa, ma non felice, prese le forme atroci di una morte assurda, provocata da ustioni gravissime, il 17 ottobre 1973. IL MATTINO – Cultura Marino Freschi 17 OTTOBRE 1973 : A quarant'anni dalla morte di Ingeborg Bachmann Un freddo. Come non mai, è penetrato tra le strade. Giunsero dal mare commandos volanti: il golfo con tutte le sue luci si è arreso. E' caduta la città. Sono innocente e prigioniera nella Napoli assoggettata. Di rado una poesia su Napoli è stata più radicalmente surreale di questa lirica di Ingeborg Bachmann, la scrittrice austriaca, morta, tragicamente a Roma, in via Giulia 66, esattamente 40 anni fa, in circostanze inquietanti. Per questa ricorrenza il nostro paese le ha dedicato nei giorni scorsi un convegno alla Casa di Goethe a Roma e una densa monografia La terra del morso. L'Italia ctonia di I.Bachmann di Camilla Miglio (Quodlibet, pagine 174,€22), ispirata da una intensa sensibilità per l'avventura meridionale della poetessa austriaca che è vissuta più di metà della sua vita tra Ischia, Napoli e Roma. In Germania l'anniversario è celebrato da una nuova, esauriente biografia di Andrea Stoll: Ingeborg Bachmann. L'oscuro splendore della libertà (I. B. Der dunkle Glanz der Freiheit, C. Bertelsmann, Monaco, pagine 384, € 23), arricchita da significative interviste con i parenti della scrittrice. Per avvicinarci a quella che viene universalmente considerata la maggiore poetessa dell'Austria contemporanea si deve partire da Klagenfurt, la piccola capitale della provincia alpina della Carinzia, dove, nata il 25 giugno 1926, la scrittrice rimase fino al conseguimento della maturità nel '44. Compie poi il salto nella grande città, a Vienna, con la scoperta della modernità più avanzata. A Klagenfurt Ingeborg era stata sconvolta dall'occupazione nazista nel '38, salutata con entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione (d'altronde ancora oggi la città è la roccaforte dell'estrema destra, come hanno confermato le recenti elezioni). A Vienna la poetessa s'interroga sul problema cruciale del potere e dell'angoscia, confrontandosi con Heidegger, discutendo una tesi su La ricezione critica della filosofia di Heidegger (pubblicata in Italia a cura di Eugenio Mazzarella da Guida), in cui si opponeva tenacemente all'ambiguità concettuale e politica heideggeriana, pur riconoscendone l'incidenza intellettuale. E quell'apertura a contrasto ha ravvivato e avviato la sua poesia, conferendo alla scrittura la capacità di penetrare nei meandri della chiacchiera quotidiana per trasmutarla in parola lirica. Il mondo vissuto con disperante angoscia si apre in un'illuminazione che recupera, con immediata semplicità, la dimensione aurorale della fiaba. Durante una vacanza meridionale un incontro casuale viene trasvalutato dalla memoria lirica: Ma mentre se ne andava, quando aveva già preso la mano di lui, si voltò indietro, perché le era venuta in mente la cosa più importante e la gridò al ragazzo che aveva visto la vittoria di Adorni: auguri! Questa facoltà, questo potere estetico di cogliere il piccolo gesto, di smarrirsi e ritrovarsi nell'episodio umile e minuto – per Andrea Stoll: nell'«oscuro splendore» -, svela la sua tipicità mitteleuropea, fa affiorare il suo rifiuto dei massimi sistemi ideologici in nome di una concretezza e di un'umanità, che, notata e amata, parla direttamente di sentimento nel racconto di verità, che Camilla Miglio chiama giustamente "ctonia". E l'Austria per Ingeborg coincide con quel senso di inarrestabile tramonto, già distintamente percepito dagli scrittori della «Grande Vienna» come Musil, Roth, Zweig e Canetti, quella di Wittgenstein (cui la poetessa dedicò un incisivo saggio) e di Freud, quell'apocalisse presagita da Karl Kraus e Hermann Broch. E quel crepuscolo per lei s'identifica con la fine stessa dell'esperienza di patria, senza alcuna illusione internazionalistica e di redenzione politica. Se l'annessione nazista dell'Austria aveva costituito un trauma irreversibile, la sotterranea sopravvivenza nel dopoguerra di strutture inquinate dalla mentalità nazionalsocialista e da un'animosità razzista nel paese liberato, provocarono un definitivo rifiuto dell'Austria da parte della scrittrice, che cominciò la sua vita nomade e inquieta, registrata da una scrittura fortemente evocativa, piuttosto che rievocativa, sempre segnata dal dolore che è l'ombra della sua tormentata esistenza. Gli stessi incontri sentimentali ed esistenziali con Max Frisch e soprattutto con Paul Celan approfondirono la sua sensibilità sulla soglia di un visionarismo apocalittico. Dopo soggiorni a Ischia e a Napoli (ospite di Hans Werner Henze a via Generale Parisi), nel 1965 si trasferisce a Roma. Il rapporto con l'Italia si consolida, si radica e si ramifica: di questa terra ama la gente semplice, i colori e i sapori del Mezzogiorno, che le sa ancora donare estremi istanti di rassicurazione, metafisicamente fissati nella memoria poetica, che si eleva in tali momenti a una classicità, densa di una intima verità figurale: Prenderò dunque il sale dal mare, quando ci soverchierà, e ritornerò indietro a deporlo sulla soglia. Ed entrerò nella casa. Come un antico rito mediterraneo Ingeborg celebra l'incontro con quello spazio spirituale che la sua scrittura di esule, di straniera, di donna senza patria e senza amore ci partecipa fino al limitare del silenzio. Silenzio che nella sua vita, intensa, ma non felice, prese le forme atroci di una morte assurda, provocata da ustioni gravissime, il 17 ottobre 1973.
Prof. Marino Freschi – Università Roma 3